Come si dice bomba nucleare in americano? “Nuke”, si dice. Allora, ci si domanda, bisognerà adottare anche nel caso della geopolitica nel Mar Rosso il detto dell’indimenticabile ministro dell’Interno francese, Charles Pasqua, che parlava trenta anni fa di “Terrorizzare i terroristi”? Vale la pena, cioè, schierare l’armamento atomico sottomarino per solcare come uno squalo il Golfo Persico, in modo da dire a Iran, Russia e Cina che il giochino del ricatto nucleare è finito, scoprendo il bluff di Vladimir Putin, Ali Khamenei e Xi Jinping? Se Donald Trump dovesse spuntarla nella rielezione a presidente degli Stati Uniti a novembre prossimo, gli converrà mostrare i denti o andare a braccetto con gli “uomini-missili” internazionali, del calibro di Putin, Kim Jong-un e Khamenei? All’industria degli armamenti americana piace più Joe Biden e i suoi “wokist” o The Donald con i suoi vichinghi ungulati che assaltano la cattedrale della democrazia americana? Ma che vinca l’uno o l’altro, bisognerà che prima o poi qualcuno spezzi “preventivamente” le reni all’Iran, se non vogliamo finire come ai tempi della Monaco di Adolf Hitler. Oggi un po’ tutti, tranne Russia, India e Cina, futuri monopolisti del Global South, hanno da temere dalla vittoria indiretta della strategia di Teheran, che tiene in scacco il resto del mondo con il suo “Asse della Resistenza”, composto dalle milizie fondamentaliste eterogenee (sunni-sciite) di Hamas, Hezbollah e Houthi. L’arma denuclearizzata dell’Iran oggi è rappresentata dalla rievocazione sciamanica della “causa palestinese”, morta e sepolta dopo la vittoria occidentale nella Guerra fredda.
Ed è proprio il conflitto in Palestina la vera pietra di inciampo che Biden non può evitare e che Trump non potrà calpestare. Un gigantesco bastone, quello della polveriera di Gaza, lanciato in corsa dagli Ayatollah tra gli ingranaggi del sistema-mondo, proprio mentre era al culmine il processo di distensione mediorientale. Bloccando così, forse per decenni, il coinvolgimento del più grande Stato arabo, custode della Mecca, che su invito americano si era orientato a stabilire legami politico economici con lo Stato di Israele, entrando a pieno titolo e in punta dei piedi negli Accordi di Abramo. Oggi, Riad, il Cairo e gli Emirati non possono disinvoltamente camminare sulle macerie di migliaia di vittime civili palestinesi e delle terrificanti distruzioni, provocate dall’esercito israeliano come rappresaglia dell’ignobile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. L’altro granello negli ingranaggi che blocca il processo di isolamento dell’Iran è rappresentato dall’avverarsi di una quasi impossibile congiunzione astrale, per cui Pechino ha fatto il miracolo di un riavvicinamento tra Riad e Teheran. Cosicché i due più grandi Stati petroliferi della regione hanno trovato il modo per non distruggersi tra di loro, spostando ancora di più l’asse della geopolitica verso il Global South. Ciò significa molto semplicemente che gli embarghi sulle forniture petrolifere di Iran e Russia saranno in futuro sempre meno efficaci, dato che l’imponente blocco di Paesi non più allineati con l’Occidente sarà in grado di dirottare verso i propri destini in via di sviluppo enormi risorse energetiche a buon mercato.
E finché l’Occidente non avrà trovato la vera via alternativa al petrolio e al gas naturale (grazie al nucleare pulito e alle tecnologie green che prescindano dal monopolio cinese delle terre rare), allora l’enorme peso geopolitico degli Stati produttori rimarrà invariato fino all’esaurimento dei loro giacimenti. Pianeti neri questi ultimi, che hanno acquisito nell’ultimo secolo una capacità gravitazionale talmente abnorme da alterare gli equilibri mondiali che resistevano dal 1945, a tutto danno delle democrazie divenute sempre più impotenti per la mancanza della “Forza” offensiva. La sola, quest’ultima, in grado di tagliare per tempo la testa dell’Idra jihadista, sciita e sunnita, prima che l’Occidente resti vittima di un nuovo nazismo clericale e di inediti olocausti, orditi ed eseguiti da un oscurantismo millenario reso invincibile (per nostra esclusiva colpa) dal potere del denaro. Nessuno dovrebbe dimenticare il grido di battaglia e la dichiarazione di guerra al resto del mondo libero di Ruhollah Khomeyni – “l’Islam o è politico, o non è nulla!” – così come vuole la legge sacra del Corano, codice penale e civile e regola religiosa al contempo, in cui non esiste alcuna separazione tra Stato e Chiesa. L’Iran (imitato oggi da Putin) ha capito prima di ogni altro nemico mortale dell’Occidente dove sia il nostro ventre molle, ovvero l’assoluta incapacità di morire per un’idea del sacro che non sia la terra, il potere o il denaro.
La Guerra santa alla quale i fedeli musulmani sono chiamati in tutto il mondo è quella di un dio dispotico, al quale per onorarlo il credente in Allah deve, se necessario, sacrificare con entusiasmo la propria vita perché la sua rivelazione divina trionfi sui miscredenti. Le guerriglie islamiche nate dal ventre dei mullah seguono la regola d’oro dettata da Henry Kissinger: vincono se non perdono (quindi, ad Hamas basterà semplicemente sopravvivere per ricominciare il ciclo!), mentre uno Stato deve vincere per non perdere. Quindi, in proiezione, l’Ucraina sarà sconfitta, e l’Occidente cercherà inutilmente compromessi con i moderati musulmani (che non esistono), per non ricadere negli errori della superpotenza americana che perse contro i miliziani di Dio in Afghanistan e in Iraq, ritirandosi con ignominia dal Vietnam perché umiliati da un altro tipo di guerriglia comunista. Varrebbe la pena ricordare che non c’è pace nel cuore di chi vive per distruggerti.
Aggiornato il 16 gennaio 2024 alle ore 18:18