Noi e le Afriche: razzisti al contrario

Quante Afriche conosciamo? Una sola: quella derelitta e senza speranza della crescita demografica incontrollata, della povertà e delle emergenze sanitarie. Così, però, riusciamo solo a fare del razzismo ipocrita benché politicamente corretto. L’Africa e gli africani, a quanto pare, sono stanchi della nostra finta democrazia che, nel loro caso e con il nostro avallo, ha permesso il consolidarsi di vere dinastie di potere a fronte di finte elezioni presidenziali “democratiche”. Così, nell’ultimo decennio, l’Occidente ha assistito impotente a una decina di golpe militari in Africa, dove guarda caso a essere additati come Nemico numero 1 siamo sempre noi europei (Francia in testa a tutti!), malgrado che la colonizzazione (durata peraltro pochissimo) sia finita sessanta anni fa. Quindi, tutto quello che è accaduto da allora è solo e soltanto responsabilità delle élite autoctone che hanno (s)governato i loro Paesi emergenti, ricchissimi di materie prime, ma altrettanto generatori di feroci faide etnico-tribali, genocidi, terrorismo islamico, ruberie, violenze e vessazioni inimmaginabili di ogni tipo per mano degli stessi africani. Il Sud-Sahara e il Sahel sono collettivamente stati soprannominati come i Paesi della “cintura dei golpe”, o coupe-belt (all’inglese). Tanto per capirci, come estensione geografica, l’Africa equivale per chilometri quadrati alla somma dei territori dell’Unione europea, degli Usa, di Cina, India e Giappone e, quindi, i suoi giganteschi problemi sono destinati a condizionare nei prossimi decenni i destini del mondo sviluppato.

Per capire le distanze esistenti oggi tra noi e “le Afriche”, è sufficiente citare alcuni significativi dati dell’Afrobarometer, un’agenzia di sondaggi secondo cui in ben 36 Paesi africani il 53 per cento della popolazione si dichiara favorevole a un colpo di Stato militare, qualora chi governa abusi del proprio potere: il che si avvera nella stragrande maggioranza dei casi, visto che il controllo dal basso è praticamente inesistente, così come è tutta da inventare una “balance of power” che si rispetti. Insomma, quello che è possibile definire come “afropopulismo” è in rapida ascesa non solo nella “coupe-belt” ma in Nazioni come il Botswana e il Sudafrica, quest’ultima devastata dalla guerra per bande della delinquenza locale. A ben ragione, malgrado la nostra retorica democratica, le popolazioni africane sentono la necessità di liberarsi di finti sistemi democratici che non garantiscono loro né prosperità né sicurezza, poiché vanno in direzione contraria agli interessi dei loro cittadini. Di conseguenza, sarà proprio la gioventù africana (ricordando che l’Africa è il Continente più giovane del mondo) a volersi liberare di questo stato di cose, per un cambio radicale di direzione in senso autocratico. Gli Stati africani si dimostrano forti lì dove, invece, dovrebbero essere deboli e viceversa. Nel senso che molti regimi si dedicano con grande accanimento a perseguitare e incarcerare i loro oppositori, ma non sanno garantire la sicurezza dei propri cittadini tutelandoli dal rischio di essere derubati o uccisi.

Conseguenza diretta di questa citata incapacità, è il successo degli uomini forti che promettono di ripristinare la sicurezza e la pace sociale. E, in tutto questo, come osserva il l’Istituto per la Pace di Oslo, aumentano vertiginosamente i mini-conflitti locali, che hanno fatto più vittime nel solo 2021 di quelle recensite negli ultimi trentacinque anni! Questo perché è proprio dal 2021 che Burkina Faso, Mali e Niger sono stati sconvolti dalla guerriglia jihadista dell’Isis e di Al-Qaeda, facendo salire il numero delle vittime dalle 800 del 2016 a più di 10mila nel 2022. E non è davvero una coincidenza se proprio in questi tre Paesi, una volta democratici, si sono verificati tre colpi di Stato militari che hanno ottenuto un ampio consenso popolare, per mettere fine al clima di insicurezza diffusa tollerata dai precedenti governi. In questa dinamica, maggiore sarà la penetrazione jihadista lungo la costa africana, tanto più ricorrenti saranno le situazioni di caos e l’arrivo di uomini forti al potere, per mettere fine ai disordini e alla violenza. Il Togo è uno dei prossimi candidati, visto che la famiglia Gnassingbé “regna” da 56 anni ed è incapace di fronteggiare la violenza jihadista. Anche il Niger, la Nazione più popolosa e ricca di risorse energetiche dell’Africa, sta da tempo confrontandosi con la guerriglia fondamentalista dei Boko Haram che terrorizza il Nord-Est, mentre nel Nord-Ovest operano le milizie separatiste con i loro saccheggi e violenze di massa.

Nel biennio 2021-22 le vittime civili in Nigeria sono state non inferiori alle 10mila all’anno e altrettante se ne prevedono a stretto giro, circostanza quest’ultima che regala alla Nigeria il non invidiabile primato di essere il quinto Stato più violento al mondo, dopo l’Ucraina. Le élite nigeriane che vivono sulla rendita del petrolio abitano in enclave protette da guardie armate, al riparo dalle violenze, e non hanno interesse a modificare una realtà che vede l’astensione elettorale attestarsi al 70 per cento, mentre il 40 per cento dei nigeriani ritiene che sia giusto l’intervento dell’esercito per mettere fine agli abusi di potere dei leader eletti. Per non parlare poi delle guerre civili che sconvolgono l’Etiopia e il Sudan. E in tutto questo l’Occidente che fa? Si autoflagella, lasciando sul campo alla Cina l’onere di creare grandi infrastrutture in Africa e di sfruttarne a suo piacimento le ingenti risorse minerarie, mentre alla Russia è stato di fatto appaltato il business della sicurezza anti-Jihad. Una vera geo-strategia alla rovescia, la nostra.

Aggiornato il 04 gennaio 2024 alle ore 10:06