Israele e i freni americani

Una guerra si vince quando il nemico contro cui si combatte è sconfitto. Non esistono né possono esistere altre modalità di vittoria. A seguito dell’eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, Israele è entrato in guerra contro il gruppo terrorista che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza con lo scopo di mettere fine al suo dominio. Dopo oltre cinquanta giorni di guerra, l’obiettivo è ancora lontano, e lo è per una ragione principale. L’operatività militare di Israele e la sua efficacia sono ostacolate dai freni americani. Il rapporto tra lo Stato ebraico e gli Stati Uniti, contrariamente a quanto si pensi comunemente, non è mai stato idilliaco, ma contrassegnato da alti e bassi se non da asperità e incomprensioni. La necessità dell’“amico americano” ha comportato e comporta ancora l’agire il più possibile, in modo da non causare attriti troppo forti, anche se non sono mancate le occasioni in cui il rapporto è giunto ai minimi storici, come sotto l’Amministrazione di Barack Obama, la più apertamente ostile a Israele insieme a quella di Jimmy Carter.

La vicinanza a Israele da parte americana, immediatamente dopo il trauma del 7 ottobre, si è evidenziata in modo plateale. Da una parte, ha agito il forte impatto provocato dai crimini di Hamas, dall’altra l’esigenza geopolitica di mostrare all’Iran e alle sue diramazioni regionali che, in caso di allargamento del conflitto, gli Usa sarebbero stati al fianco di Israele. La musica ha iniziato a cambiare quasi subito, dopo i primi bombardamenti israeliani sulla Striscia, nonostante sia sempre stato ribadito che Israele avesse il diritto di difendersi e che Hamas andasse eliminato. Le preoccupazioni etiche dell’Amministrazione di Joe Biden – evitare di causare troppi morti tra i civili, mantenere aperti i corridoi umanitari – sono diventate il leitmotiv a cui ci siamo abituati. Ma come si fa a vincere una guerra contro un nemico non convenzionale che fa strame di ogni codice morale, tra cui l’uso dei civili come protezione, il confondersi in mezzo a essi, e l’utilizzo di strutture pubbliche – scuole, ospedali, edifici abitativi, campi profughi – come postazioni militari?

Qualsiasi democrazia che si trovi a combattere contro un nemico situato su un asse valoriale completamente opposto, che non riconosca nessuno dei codici normativi ed etici sui quali essa si basa, ma fa propri i codici completamente diversi, il primo dei quali è la totale assenza di scrupoli e l’assoluta brutalità dell’azione, parte svantaggiata. Se essa vuole avere la meglio, deve necessariamente rinunciare almeno in parte ai propri criteri di moderazione e di rispetto della vita umana. Così è stato per gli Alleati durante la Seconda guerra mondiale, così è stato più recentemente da parte degli Stati Uniti in Iraq, e in modo particolare a Mosul nel 2017 dove, per avere la meglio sull’Isis, la città venne ridotta a un cumulo di macerie e vennero uccisi undicimila civili secondo la stima più conservativa. Il realismo ci dice che se Israele intende far terminare il dominio di Hamas a Gaza, non potrà evitare di provocare altre vittime tra i civili, soprattutto a sud, dove il grosso della formazione salafita è acquartierato. L’esito della vittoria non è quello che gli americani vorrebbero irrealisticamente che fosse, e che pongono come una gabbia costrittiva su Israele: poche vittime civili e Hamas sconfitto. Non è possibile, e lo sanno benissimo.

La schizofrenia americana è figlia di un insieme di contraddizioni che non possono convivere. Da una parte, a ottobre, si scongelano sei miliardi di dollari per l’Iran, dall’altra lo si ammonisce; da una parte si cerca di giostrare con i Paesi arabi, dall’altra si appoggia Israele; da una parte si afferma che Hamas va tolto di mezzo, dall’altra si vorrebbe che le tregue determinate dal rilascio degli ostaggi andassero avanti, diventando un cessate il fuoco permanente. Israele non può divincolarsi completamente dalla stretta americana: è costretto a restare nel suo abbraccio. Ma più passa il tempo e più la guerra non riprende, più sarà difficile portarla a compimento, conducendo il tutto a una soluzione abborracciata. Il che equivale a una sconfitta.

Aggiornato il 02 dicembre 2023 alle ore 10:10