In Argentina il liberista Javier Milei arriva al potere dopo circa venti anni di governi peronisti-populisti, peronisti di sinistra (16 anni) e antiperonisti, durante i quali il Paese sudamericano ha sofferto livelli di inflazione elevatissimi, non riuscendo a tracciare strategie economiche minimamente tendenti a frenare la svalutazione monetaria e suoi correlati. Milei assumerà la carica di presidente il 10 dicembre, e con il suo 55,7 per cento dei consensi avrà campo libero nell’applicare la sua visione economica del Paese. L’ardita operazione economica che se verrà applicata sarà comunque un interessante esperimento, prevede, brevemente, alcune drastiche misure: tra queste una netta riduzione della spesa pubblica, presumibilmente intorno al quindici per cento del Pil; la soppressione del Banco Central de la República Argentina, la “dollarizzazione”, quindi la sostituzione del Peso. Tuttavia molti analisti economici ritengono che tale “cura” sia inappropriata e pericolosa per l’Argentina, ma va anche ricordato che fino ad ora gli stessi esperti, i quali hanno avuto “mani libere” sul sistema economico nazionale, hanno per decenni fallito clamorosamente portando l’inflazione argentina intorno al 143 per cento annuo. Quindi l’obiettivo di Milei è notoriamente quello di creare uno “shock” socio-economico probabilmente senza alcuna “gradualità”. Comunque gli elettori del neo Presidente sono pronti a correre il rischio di uno shock, frastornati da un’economia da anni in “coma”, tenuta in stato “vegetativo” da diverse politiche redistributive o fintamente liberali, che non hanno fatto altro che prolungare “l’agonia argentina”. Ricordo che il Paese sudamericano ha un gigantesco debito, oltre quaranta miliardi di euro da restituire al Fmi, Fondo monetario internazionale; che la popolazione per circa il quaranta per cento è sotto la soglia di povertà, ed il tasso di cambio è bloccato da una serie di restrizioni.
Un periodo, quello che stanno vivendo oggi gli argentini, che richiama alla memoria quanto accaduto nel 2001, quando il Paese sudamericano piombò nella peggiore crisi della sua storia. Manifestazioni popolari continue, disoccupazione diffusa, il 60 per cento della popolazione in povertà, saccheggi, insomma un crollo sociale che fu arginato con ingenti aiuti a tutta la popolazione, soprattutto ai poveri, al fine di contenere una “deflagrazione sociale”. Oggi “l’argine” alla deflagrazione sociale è la speranza della politica di Milei. Ma spesso, come in numerosi casi analoghi, la questione che emerge è la seguente: per quale motivo una nazione con risorse naturali importanti, come metalli preziosi, oro, rame, petrolio, ma anche una natura dove l’agricoltura e la zootecnia non hanno praticamente limiti allo sviluppo, si trova in una condizione cronica di economica vacillante? E inoltre: perché una nazione che possiede istituzioni culturali ed università pubbliche di elevata qualità non riesce a uscire da questo vicolo cieco? Le risposte possono essere molteplici e anche articolate, ma in realtà le cause affondano le radici nell’incapacità di una classe politica, peronista o antiperonista che sia, non in grado di originare un concreto modello produttivo legato a una crescita sostenibile, nel quadro di una società che è sopravvissuta, per troppo tempo, in un apparato assistenziale povero.
Per di più, la visione politica è stata spesso caratterizzata da un orizzonte corto, e soprattutto con modalità avventuristiche. Comunque dopo il 2001 l’Argentina ha reagito; una graduale, ma fisiologica, ripresa economica c’è stata, classica reazione scaturita dalla gravità della crisi vissuta. I coniugi peronisti Néstor Kirchner, presidente argentino tra il 2003 ed il 2007, e successivamente Cristina Elisabet Fernández Wilhelm Kirchner, presidente dal 2007 al 2015, avviarono una ricostruzione economico-sociale del Paese. Un “vento delicato” che mosse la Nazione. Ora il “soffio Milei” non si prevede debole; e fa fremere le bandiere “dollarizzate”. Può sembrare paradossale che il patriota Milei possa volere la perdita della sovranità monetaria, ma in vero gli argentini non vedono impraticabile tale scelta monetaria. Intanto va detto che il popolo argentino è abituato ad usare il dollaro, in quanto le dinamiche economiche nazionali hanno già conosciuto “l’impronta” di questa valuta, ma soprattutto ha provato sulla pelle cosa significa “iperinflazione”, e questo ha accentuato il distacco e lo scetticismo degli argentini nei confronti della valuta nazionale.
Inoltre in Argentina molti ricordano il 1991 quando fu adottata la legge sulla convertibilità, un fallimento completo. Allora attraverso un “currency board” (aggancio valutario) – in vita fino al 2002 – fu messa in circolazione il nuovo Peso (che graficamente esprime un chiaro fascino verso il dollaro), che indicizza il valore di questa valuta rispetto al dollaro. Ma l’assenza di riserve valutarie che garantissero tale moneta portò all’ovvietà della iperinflazione. Identiche perplessità sorgono ora con l’ipotesi di “dollarizzazione”, nel quadro dell’antisistema di Milei, che vede il Peso argentino incarnare l’odiosa moneta della casta, patrimonio delle élite, della quale, secondo Milei, è opportuno sbarazzarsene.
Aggiornato il 29 novembre 2023 alle ore 12:20