Cosa pretendevano i peronisti italiani, quei giornalisti e intellò travestiti da campesinos che spandono effluvi dai loro attici romani e milanesi? Cosa pretendevano, che gli argentini votassero ancora per il peronismo che ha governato per vent’anni il Río de la Plata e le pampas fino alla Terra del fuoco, rapinando, berciando, distruggendo l’economia di quello che nell’Ottocento era un Paese più ricco della Svizzera, come ricorda Álvaro Vargas Llosa, figlio dello scrittore peruviano Mario? Il battaglione di pifferai, che in Italia ha sbavato per personaggi come la ex presidenta e primera dama Cristina Elisabet Fernández de Kirchner, ha avuto il coraggio di dire che il popolo argentino ridotto alla fame dovesse votare per chi aveva portato la nave al naufragio. La stampa mainstream (non solo italiota) da mesi definiva il candidato Javier Milei, ora presidente, come un “ultraliberista” che voleva togliere i “diritti” al popolo e distruggere i poveri per dare ai ricchi.
Certo: Javier Milei non è un santo. Alcuni tratti del suo carattere, della sua prossemica, le sgambature al teatro dell’opera della sua fidanzata Fátima Flórez ricordano non il liberalismo e il liberismo, ma un cattivo uso dell’etichetta diplomatica. Anche le sue iperboli come “distruggiamo la Banca centrale”, per quanto sacrosante (la Banca centrale argentina non ha forse fallito la sua missione?), rischiano di produrre caos là dove ci vuole rigore, prima nei fatti e poi nelle parole. Inoltre, è sbagliato accorpare Milei con lo statalismo mascherato di Jair Bolsonaro e Donald Trump, legato a monopoli e corporazioni. Perché, allora, non accorparlo con quella parte di politici chavisti e socialisti che offuscano il panorama internazionale e rattristano l’economia con la loro incompetenza? Volevate affidare le sorti economiche dell’Argentina a Giuseppe Conte? Oppure per i gauchos di oggi era preferibile la cultura economica del Vaticano e degli ayatollah islamici? O per risanare l’economia mondiale bastano le rubrichette petulanti di quel Michele Serra che, come una banderuola, ruota dalla sinistra radical chic alla sinistra chic? Lasciamo ai Serra i loro cancelli mentali e cerchiamo di essere realisti. Di fronte a un Brasile, il cui presidente Luiz Inácio Lula da Silva è ormai il più accanito leccapiedi di Vladimir Putin, è certo possibile che gli Stati Uniti sostengano e abbiano sostenuto a spada tratta un’Argentina non in preda ai giacobinismi e che facesse argine all’espansione sino-russa in America Latina.
LA REPUBBLICA DELLE NON-BANANE
La fotografia di queste elezioni sta tutta in un articolo su La Naciòn, da cui traduco queste parole: “L’Argentina spendacciona e dilapidatrice degli anni Venti di cui scrisse Louis F. Celine nel suo Viaggio al termine della Notte, per un certo periodo non riuscì nemmeno a comprare banane dal Paraguay e dalla Bolivia, perché non pagava più le forniture. Non c’erano nemmeno i dollari per comprare le banane, un fatto umiliante. Nella sublimazione surrealista che è stata la campagna elettorale, c’è stato un finale super, e nel senso più ampio e mondano: un violinista, nel teatro d’Opera più pretenzioso del mondo, il Colòn, si è messo a suonare la Marcia Peronista, mentre all’esterno i peronisti contestavano la presenza di Javier Milei e mentre all’interno del Colòn una parte del pubblico solidarizzava col lui. Tutto ciò prima che cominciasse il dramma lirico Madama Butterfly, di Giacomo Puccini”.
Quella di Milei resta una scommessa disperata, diciamolo chiaramente. Ci basti però sapere che il neo-presidente non ha come riferimenti culturali Serge Latouche o l’ex pentastellato Alessandro Di Battista, ma la scuola austriaca del premio Nobel Friedrich von Hayek, oppure il miniarchismo di Ayn Rand, quel pensiero secondo cui lo Stato deve concentrarsi a fare bene le sue funzioni essenziali, evitando di interferire con lo sviluppo sociale, culturale e del libero mercato. Il liberismo ha creato ricchezza nelle nazioni dov’è stato applicato. Comunque sia, e comunque la si pensi, l’Italia non ha mai ricevuto in dono nemmeno un atomo di liberismo. I libri di von Hayek nel nostro Paese, anzi, sono stati messi all’indice per un decennio e dopo che l’economista era diventato premio Nobel, mentre le sue teorie producevano risultati migliori di quelli di Pier Luigi Bersani. Javier Milei fa parte di una cultura che in Italia ha preso il volto del Partito radicale di Marco Pannella, che definiva i partiti “affasciati” tra di loro e omologhi nel perpetuare la loro rappresentanza senza limiti, facendo il contrario di ciò che predicavano.
Forse il presidente argentino liberista, così mal definito e pre-odiato nella più classica e immonda delegittimazione leninista, rappresenterà comunque quel Mefistofele di cui Johann Wolfgang von Goethe nel Faust scrive: “Io sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male ed eternamente opera il Bene”. Magari ci riuscirà, a migliorare le condizioni di una nazione ammalata da troppi decenni. Una puntura a volte fa male, ma serve a salvare la vita. Anche se Javier Milei si dimostrasse fallimentare, non cambieremmo da liberali la nostra opinione riguardo gli ignoranti che lo hanno così mal battezzato prima della sua nascita politica. Agli odiatori del liberismo riserverei un rovesciamento della confessione mefistofelica: “Noi siamo parte di quella forza che eternamente predica il Bene e che eternamente opera per il Male”.
Aggiornato il 22 novembre 2023 alle ore 10:31