Come iraniani e sauditi hanno incrementato la presenza islamica in Africa

Questo mio testo del 2005 – qui con alcune integrazioni – si basa su dati del giornalista e dissidente iraniano Amir Taheri. È molto interessante per capire come mai l’espansione islamica post-guerra del Kippur sia stata massiccia sia in Oriente – come in Afghanistan – sia nell’Africa. Quando i mullah presero il potere a Teheran, nel 1979, ereditarono una rete di relazioni diplomatiche, economiche e militari con alcuni Paesi africani. A differenza della diplomazia gestita (poco e male) dallo scià Reza Pahlavi, i komeinisti utilizzarono quella rete per diffondere la loro rivoluzione. Le missioni diplomatiche in Africa passarono da 11 nel 1979 a 32 nel 1989 (nel 1970 l’Iran aveva nell’Africa nera una sola ambasciata permanente, ad Addis Abeba). La crescita rifletteva l’interesse dell’Iran in favore dei regimi orientati a sinistra (e quindi antiamericani), come la Guinea di Ahmed Sekou-Touré, lo Zimbabwe, il Mozambico, l’Angola e l’Etiopia prima della caduta del dittatore marxista Menghistu Haile-Mariam. Nel 1989 la presa di potere in Sudan da parte di militari di fede islamica ha dato una base ulteriore alla crescita della presenza iraniana in tutto il Continente africano. Il Sudan, anzi, diventò rapidamente il centro dell’interventismo komeinista, che – pensando la jihad sciita come un fenomeno mondiale – giunse ad allargarsi anche in America Latina. Si pensi al Governo venezuelano rosso-bruno di Hugo Chávez, di cui ha fatto parte anche la comunità libanese di Hezbollah. Quando nel 1981 – all’indomani dell’indipendenza dal Regno Unito – soggiornai per un periodo nel Belize, conobbi l’assistente algerino di un ministro dell’appena nato Governo autocefalo di Belize city, che era un palestinese.

Nel 1990 l’Iran beneficiava di un attracco “privilegiato” a Port-Sudan, dove la marina iraniana aveva una presenza quasi permanente e conduceva una missione militare di 400 persone, con lo scopo di addestrare l’esercito sudanese nella sua guerra contro i secessionisti del sud. Teheran si preoccupò anche di commutare un prestito di 189 milioni di dollari contratto dal Sudan nel periodo dello scià Pahlavi, con la fornitura di petrolio a prezzo ridotto e la consegna di armi per 130 milioni di dollari. Il presente proviene sempre dal passato: nel 1993 l’Iran ha coadiuvato il Sudan nell’acquisto di armi cinesi, e nel frattempo costruiva aeroporti e ospedali militari per l’esercito sudanese (non per la popolazione!). Il presidente iraniano, Ali-Akbar Hashemi Rafsanjani, fece due visite di Stato a Khartum proprio per sottolineare la propria presenza a supporto del regime sudanese. Diverso il caso della penetrazione economico-politica iraniana nella così detta “Africa nera”. Nel 1986 Ali Khamenei, allora presidente e poi “Guida suprema”, si recò in visita ad Harare, capitale dello Zimbabwe, ma commise una gaffe diplomatica, rifiutando di stringere la mano alla moglie del presidente Robert Mugabe (un altro dittatore che studiò da gesuiti e marxisti). Khamenei dovette abbandonare il ricevimento in suo onore e tornare nella sua ambasciata, per rientrare a Teheran il giorno successivo. Anche se non è noto, in Africa esisteva una potente e numerosa popolazione sciita di origine siriana e libanese. Nell’Africa occidentale gli sciiti avevano in mano parte del mondo degli affari, da Nouakchott a Luanda passando da Freetown e Brazzaville. Grazie a quelle comunità gli iraniani ottennero una grande simpatia, anche se erano secolarizzate da tempo.

IL RISVEGLIO SAUDITA

Negli anni Ottanta, i Sauditi capirono di essere messi in discussione come leader della Umma islamica da parte komeinista. Del resto, già l’ayatollah Ruhollah Khomeini attaccò il regime saudita in quanto “evangelizzatore dell’Islam americano. Khomeini chiamò anzi alla “liberazione” delle città sante di La Mecca e Medina dal controllo della dinastia Al-Saud. I sauditi avevano più capitali degli iraniani, ma mancavano di uomini e alleati fattivi. Trovarono un alleato nel generale Muhammad Zia ul-Haq, capo fondamentalista del Pakistan. L’alleanza aveva il sostegno americano (sic) a causa del loro contrasto all’occupazione sovietica dell’Afghanistan e della loro guerra strisciante (anche per l’interposta mano di Saddam Hussein) contro il regime degli ayatollah. Negli anni Ottanta l’Africa diventò nel silenzio dei media campo di battaglia della guerra diplomatica, missionaria e militare dei sauditi: in soli dieci anni, l’Arabia aprì quaranta nuove missioni diplomatiche nel Continente. Cominciò anche a finanziare iniziative sociali islamiche: moschee, madrasse (scuole coraniche gratuite) e altre organizzazioni missionarie. Nel 1997, l’entità degli investimenti era di 150 milioni di dollari all’anno.

La somma equivaleva agli investimenti iraniani. In alcuni Paesi come il Senegal i due Stati concorrenti offrivano ricompense in denaro alle famiglie che obbligavano i propri bambini a coprire il ventre e a portare il velo islamico. Le minigonne, diffuse a Casablanca come a Londra, sparirono. Prima del 1979, nessuna donna portava lo hijab in Senegal. Anche a Zanzibar, che fa parte della federazione della Tanzania, l’Iran e l’Arabia finanziavano insieme i gruppi islamici ribelli. Certo, era “facile” presentare il Cristianesimo come cavallo di Troia del colonialismo europeo, colpevole dei mali che erano comunque presenti in tutto il continente. I valori islamici e la tradizione africana potevano, invece, trovare una sintesi nel concetto tribale di proprietà comune, nella separazione tra uomini e donne, con la tolleranza della poligamia. I missionari islamici dicevano che il cristianesimo è la religione dei ricchi imposta da stranieri e occupanti. Iraniani e sauditi combattevano anche la democrazia in quanto “concetto occidentale”, che serve solo a perpetuare l’influsso coloniale. Il discorso aveva senso, visto che le democrazie africane, coloniali o autocefale, hanno avuto quasi sempre un pessimo esito. La collera africana contro il ricco Occidente diventava così parte della cultura di tutti gli africani.

SUCCESSO IN NIGERIA

Un rapporto iraniano stimava che circa l’80 per cento degli africani neri sarebbe stato islamico nel 2020. Di sicuro in Nigeria la sharia, introdotta nel 1999 nello Zamfara, piccolo Stato del nord, si è estesa a dodici stati fino a raggiungere, nel 2002, un terzo dell’intera popolazione nigeriana, allora di 120 milioni di abitanti. La Nigeria usciva da sedici anni di regime militare corrotto e subiva la presenza di una classe di parassiti di Governo, mentre la popolazione era impoverita. L’islamizzazione colmava un vuoto. Pochi mesi dopo l’introduzione della sharia – grazie all’amputazione degli arti nei confronti dei ladri – il tasso di criminalità era caduto al livello più basso della storia; le donne cominciarono a indossare lo hijab divenuto obbligatorio. Nel nord le scuole miste vennero vietate e la legge della sharia diventava di uso comune.

Aggiornato il 17 novembre 2023 alle ore 10:25