In generale i drammi della “condizione femminile” assurgono all’attenzione dei media internazionali quando destabilizzazioni politiche, o sommosse popolari, o questioni di politica internazionale che si verificano in determinate aree geografiche, rendono evidente la “discriminazione di genere”. Molto spesso questa “discriminazione” agisce latente e subdola nei sotterranei della vita quotidiana, rendendo difficile ogni osservazione od ogni azione tesa a far emergere tali gravi complessità.
Conosciamo quali sono le difficoltà che le donne iraniane o afghane, solo per ricordare le più eclatanti, soffrono nei loro contesti, come è noto, quanto accade al genere femminile in quelle aree centroafricane, come in Sudan, dove la loro sopravvivenza si basa spesso solo sulla resistenza alle violenze. Ma ogni volta che esplodono guerre civili o interetniche ‒ sorvolando sulle aggressioni jihadiste verso l’umanità femminile di altra religione, vedi Hamas ‒ si verificano violenze che vengono legate dagli artefici dei conflitti, agli effetti della guerra stessa.
È noto che durante azioni di guerra per le milizie lo stupro viene assimilato al concetto di “bottino di guerra” o saccheggio; è anche noto il grave “fardello mentale” che queste violenze sessuali, che rientrano nei “crimini umanitari”, esercitano sulla comunità che li subisce. Tuttavia, spesso tali violenze restano nei meandri dell’informazione solo perché incastonate in un quadro di atrocità globali che attenuano l’attenzione sulle prime.
In Etiopia dopo il conflitto tra il governo etiope e la Regione del Tigray durato dal novembre 2020 fino al novembre 2022, si sono commessi crimini che hanno lasciato sconvolta la popolazione dell’area nord del Paese, individuabile nell’area del Tigray allargata. Dall’ultimo rapporto di Amnesty International, di settembre 2023, suffragato dalle autorità del Tigray, risulta che oltre centoventimila donne tigrine sono state violentate durante la guerra. Il fattore più inquietante è che a distanza di un anno dalla fine delle ostilità le violenze continuano.
Infatti, quando a novembre del 2022, in Sudafrica il governo di Addis Abeba e i rappresentanti del Fronte popolare di liberazione del Tigray, firmavano un accordo che poneva fine a due anni di guerra civile, circa cinquanta donne tigrine venivano rapite da soldati eritrei nella regione settentrionale del Tigray. Mentre la comunità internazionale accoglieva favorevolmente il processo di pace in corso a sigla del Premio Nobel per la Pace 2019 Abiy Ahmed, capo del Governo etiope, queste donne venivano detenute per mesi e sfruttate come schiave del sesso da soldati eritrei, in vari villaggi a nord del Tigray, tra questi l’agglomerato di Kokob Tsibah.
Amnesty International ‒ che come tutte le organizzazioni per i diritti umani non è autorizzata a recarsi in Etiopia ‒ ha potuto, in ogni modo, raccogliere testimonianze nel villaggio di Kokob Tsibah, e ha prodotto, ad inizio 2023, un rapporto dove venivano testimoniate le violenze subite da una quindicina di donne tigrine schiave del sesso sfruttate sistematicamente dagli eritrei.
La falsa motivazione delle milizie eritree, che ancora oggi agiscono come forza di occupazione in alcune aree del Tigray, riguardo alle violenze carnali, è che le donne sono state violentate a causa dei loro mariti che si erano arruolati tra le fila dei soldati del Tigray. Ma è evidente che la motivazione degli stupri è basata su istinti facilmente appagabili con la violenza, piuttosto che su ritorsioni.
Il rapporto di Amnesty, benché limitato dai pochi margini di azione, testimonia l’uso sistematico dello stupro nel Tigray durante e dopo la guerra. Infatti, queste violenze sessuali non solo sono all’ordine del giorno, ma sono continuative nel tempo in diverse zone del Tigray, quindi è innegabile che le milizie eritree abbiano commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Indagare su questi crimini è complesso per molteplici motivazioni. Va ricordato che l’Eritrea era inizialmente alleata dell’Etiopia contro il Tigray; oggi mantiene una presenza in una striscia di terra nel Tigray nord-orientale in un’area geografica contesa. Questa area è un punto cieco per l’osservazione delle comunità internazionali, già interdette ad eseguire indagini in merito; infatti, né l’Unione Africana né l’Onu possono accedere a queste zone. Notizie di continui rapimenti a scopo di stupro vengono dalla fascia di Zalambessa nel Tigray, zone occupate dall’Eritrea; come nell’ospedale di Adigrat ubicato a nord di Macalle, dove quotidianamente donne tigrine violentate chiedono soccorso.
Un punto cieco alle comunità internazionali, un punto morto per la giustizia internazionale, ma soprattutto la tomba del rispetto del “genere femminile”.
Aggiornato il 14 novembre 2023 alle ore 09:31