“Ci sono momenti in cui dobbiamo rischiare di andare per conto nostro. Sappiamo che più a lungo dureranno i combattimenti a Gaza, più i nostri amici inizieranno a fare pressione su di noi affinché cediamo. Dobbiamo resistere a questa pressione e non temere le conseguenze”.
Così scrive Yossi Klein Halevi su The Times of Israel. Sì, le pressioni aumenteranno, stanno già aumentando. Gli amici, i solidali, inizieranno a scemare, le esortazioni a cessare il fuoco diventeranno il coro unanime. Gli Stati Uniti, il cui iniziale abbraccio nei confronti di Israele è stato fin troppo caloroso e che sono presenti nella regione militarmente, in funzione deterrente anti-iraniana, stanno già, da giorni, apparecchiando un dopo Gaza consegnato all’Autorità palestinese, al vecchio capobastone antisemita di Ramallah.
Non è negli interessi americani che la guerra si protragga a lungo. Tra un anno si voterà, e Joe Biden deve tenere conto di dove sta soffiando il vento della piazza, e non è un vento favorevole a Israele. Ma gli interessi americani non sono gli interessi di Israele, non lo sono mai stati veramente, e non è un mistero per nessuno che Joe Biden non abbia affatto gradito il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu. Netanyahu ha dichiarato, contro i desiderata americani, che l’Autorità palestinese non tornerà a Gaza, che essa è quello che tutti coloro che non sono in malafede sanno cosa sia, una organizzazione che ha sempre instillato odio per lo Stato ebraico, una sostenitrice del terrorismo. Ha dichiarato che Israele andrà fino in fondo anche se dovesse avere tutto il mondo contro. Sarà così? Se accadrà, il prezzo che Israele dovrà pagare sarà alto, ma assai più alto sarà se dovesse cedere e portare a casa una vittoria dimezzata, il che equivale a una sconfitta, lasciando in qualche modo Hamas presente nella Striscia, senza andare fino in fondo, cioè senza annientarne definitivamente le capacità offensive. Non sono in gioco gli interessi americani o l’opinione dell’establishment mondiale o l’opinione dei media e delle piazze, per Israele è in gioco qualcosa di molto più importante, la sua stessa credibilità, la sua ragione d’essere.
Mentre l’orrore per l’eccidio del 7 ottobre si attenua, e sopravvengono le immagini più recenti della devastazione di Gaza causata dai bombardamenti israeliani, ci si dimentica di quello che Israele ha subito, e ci si concentra su ciò che fa subire, e qui, evidenzia Halevi, si perde la chiarezza morale necessaria a capire da che parte stia il male vero, da che parte stiano gli assassini: “Nonostante tutta la complessità della tragedia israelo-palestinese, questo non è un momento complicato. No, spieghiamo pazientemente, l’eccidio non è stato una risposta a qualcosa che Israele ha fatto ma a ciò che Israele è”. Fino a quando non si è capito questo punto, non si è capito l’essenziale, non si ha a disposizione la chiave del problema. È la stessa esistenza di Israele che Hamas nega, la sua presenza, quella stessa esistenza mai accettata dall’Olp, mai accettata dall’Autorità palestinese che nelle scuole sotto la sua giurisdizione fa studiare i bambini su libri di testo in cui, sulle mappe della regione, Israele è assente, assente come vorrebbe fosse assente Ebrahim Raisi, il quale, ospite a Riad, ha dichiarato che la Palestina deve estendersi “libera” dagli ebrei dal fiume al mare.
Non bisogna dunque essere esitanti, la guerra che Israele sta combattendo è una guerra esistenziale, non meno esistenziale di quanto lo sono state le guerre del ’48, del ’67, del ’73, anche se allora il nemico era costituito da eserciti coalizzati per distruggerlo. Hamas non può distruggere Israele ovviamente, ma può corroderne l’autorevolezza, può minarne le fondamenta nel momento stesso in cui, dopo la più clamorosa aggressione terroristica che un Paese abbia subito dall’11 settembre, Israele decidesse di non andare fino in fondo, di non distruggere il nemico, cedendo alle pressioni degli alleati, ai cori sguaiati di condanna. Se lo facesse mostrerebbe ai suoi nemici regionali, in testa a tutti l’Iran, il mandante di Hamas, la propria debolezza, e in Medio Oriente nulla è disprezzato più della debolezza, nulla è rispettato più della forza. “Lasciare un regime genocida al nostro confine sarebbe un tradimento dell’etica fondatrice di Israele quale rifugio sicuro per il popolo ebraico. Sarebbe l’inizio del nostro disfacimento”, scrive di nuovo Halevi. Questo, Benjamin Netanyahu, Yoav Gallant e Benny Gantz lo sanno perfettamente, così come lo sa ogni israeliano a cui interessi realmente del proprio Paese. Se il mondo non è in grado di capirlo, pazienza per il mondo.
Aggiornato il 14 novembre 2023 alle ore 09:35