I morti in Etiopia “pesano” meno

Circa un anno fa fu siglato un accordo di pace tra il Governo etiope e la provincia del Tigray, un territorio situato a nord del Paese. Il 2 novembre 2022, a Pretoria, in Sudafrica, teoricamente si sarebbe dovuta scrivere la parola fine a questa guerra civile con la firma della cessazione delle ostilità. Ma quella che è conosciuta come “operazione di mantenimento dell’ordine costituzionale”, portata avanti da Addis Abeba, si è poi realizzata come una delle più mortali guerre degli ultimi decenni. Perché è scoppiata questa guerra civile? Bisogna ricondurre la memoria al 1991, quando fu innescata una ribellione per rovesciare il regime militare di impronta marxista-leninista rappresentato dal Derg, Comitato militare di amministrazione provvisoria, guidato dal sinistro Mènghistu Hailé Mariàm, dal 1977 al 1987. Il Derg, traducibile in aramaico in “Consiglio”, è un sistema di gestione del potere caratteristico almeno di due dittature militari dell’Africa Orientale: appunto quella etiope, rimasta al potere complessivamente dal 1977 al 1991, e quella di Siad Barre in Somalia, durata dall’ottobre 1969 al gennaio 1991.

Queste autocrazie militari “operavano” all’interno del quadro del movimento dei non allineati. Il Derg era disciplinato sul tracciato del socialismo sovietico, che in Etiopia applicava le proprie scelte politiche incastonate nel l’impianto ideologico dell’Ye-Itiopia Hibret’s’bawinet, tradotto dall’aramaico “vita comunitaria dell’Etiopia”. Mentre in Somalia la linea politica marxista leninista fu “diluita” da Siad Barre, che la idealizzò nel quadro dell’egheliano socialismo scientifico, che strutturalmente comprendeva l’islam. Comunque, l’applicazione della dittatura tramite il Derg viene generalmente associata a Mènghistu. In ogni modo, la ribellione in Etiopia contro il dittatore Mènghistu si concluse con la vittoria delle milizie tigrine che assunsero il potere in Etiopia tramite la loro guida Meles Zenawi. Ma Zenawi nel 2012, a seguito di una grave malattia, morì improvvisamente, lasciando il Paese governato da un esponente del suo movimento, Hailé Mariàm Desalegn. Desalegn restò al potere fino 2018, quando divenne capo del Governo dell’Etiopia Abiy Ahmed; un uomo appartenente a una élite sociale, diventato primo ministro senza essere stato eletto (cosa costituzionalmente prevista anche in Italia) e inoltre premiato con il Nobel per la Pace nel 2019 per avere siglato l’armistizio con l’Eritrea.

Tuttavia, questo premio Nobel risultò ben presto essere poco meritato. Infatti, dopo il suo avvento al potere e il conseguente ritiro dei tigrini dal Governo, nel Tigray si tennero elezioni “provinciali” che vennero interpretate da Abiy Ahmed, di etnia Oromo, come un referendum per l’autodeterminazione. Così, il nuovo capo del Governo di Addis Abeba trattò questa elezione come un tentativo di secessione. Aggredì militarmente il Tigray con l’aiuto dell’esercito eritreo, con il quale aveva siglato la pace, e con la motivazione di mantenere un ordine costituzionale che, in realtà, ancora non era stato infranto. A un anno dalla firma di pace tra Addis Abeba e Macallè, sponsorizzata anche dalle Nazioni Unite, nessuno degli articoli dell’accordo è stato rispettato, in particolare quello che prevedeva che le truppe eritree sarebbero dovute evacuare dal Tigray. Ma del resto a Pretoria, sede della sigla della pace, non vi era alcuna rappresentanza eritrea nemmeno con il ruolo di osservatori; per contro, la maggior parte delle milizie presenti nella regione del Tigray erano proprio quelle inviate dal presidente dell’Eritrea Isaias Afwerki. Quanti sono stati i morti in questa guerra civile lontana dall’attenzione internazionale? Si va, secondo varie fonti, da quasi cinquecentomila a seicentomila. Tale ampio divario di valutazione dei morti è motivato sia dall’inadeguatezza dei mezzi di valutazione delle perdite, sia cinicamente dal notevole disinteresse per le vittime stesse. Ma cosa è l’Etiopia? Intanto non possiamo configurarla, nemmeno oggi, come uno Stato/nazione ma come un impero che comprende almeno cinquanta etnie, o popoli. Inoltre, non possiamo definirlo un territorio che ha avuto una colonizzazione europea. Ricordo che le truppe di Benito Mussolini stanziarono in questa regione meno della militärverwaltung in Frankreich – occupazione tedesca della Francia – e il ruolo britannico non è stato quello di colonizzatore ma di “ambiguo e interessato favoreggiatore”.

L’impero etiope, le cui tradizioni sono ultra-millenarie, è passato da una rivoluzione socialista allo stalinismo militare russo, seguito da un capitalismo centralizzato che strizzava l’occhio sia agli Stati Uniti che alla Cina. Ora, il quadro “visivo” etiope potremmo definirlo “astigmatico” – cioè sfocato e con perimetri non nitidi – con programmi di una dittatura sviluppista di impronta staliniana. Forse Abiy Ahmed ha concluso una guerra dalle caratteristiche unitarie, ma non riesce più a liberarsi dal pantano politico da lui stesso creato. Così, le milizie della regione di Amhara, Fano, che avevano preso parte a fianco dell’esercito federale alla guerra contro il Tigray, come le forze dell’esercito di liberazione Oromo, anch’esse prima alleate del Governo, si sono svincolate unilateralmente dall’alleanza con Addis Abeba, per lanciare una propria scalata al potere del Paese. In tale situazione, possiamo farci delle domande: il trattato di pace esiste e cosa fa la Comunità internazionale, che ha voluto questo accordo di pace che, però, non ha fermato le ostilità? E i morti etiopi quanto pesano? Per primo, il Trattato di Pretoria è solo sulla carta ed è sfumatamente applicato, e la Comunità internazionale ha una blanda attenzione che è frenata anche dalla vena imperialista di Addis Abeba. Per secondo, la gravità della strage etiope non si riscontra, in questi ultimi decenni, nei punti più mortiferi del pianeta: né in Afghanistan, né in Iraq, nemmeno in Ucraina (a oggi circa 300mila morti). E neanche, prevedibilmente, si potrà riscontrare nel conflitto israelo-palestinese e neppure nei vari Stati in crisi del centro Africa, come Congo o Sudan. Così, questa guerra civile, iniziata nel novembre 2020 e titolata “operazione di mantenimento dell’ordine costituzionale”, tanto per dargli un tono di legalità macabra, e conclusasi sulla carta il 2 novembre 2022, non rappresenta altro che lo scarso peso di circa seicentomila morti rispetto ad altri che, forse, per interesse geopolitico, o forse per “colore”, hanno altri parametri umanitari di valutazione.

Aggiornato il 13 novembre 2023 alle ore 10:43