La guerra in Israele e il teatro della storia

La visita ufficiale in Israele da parte di Joe Biden – la seconda da parte del presidente americano in un Paese in guerra, dopo quella in Ucraina di febbraio – va analizzata in relazione al discorso che ha poi tenuto una volta tornato a Washington. L’incontro e le successive parole sono raccolti da un preciso denominatore: la difesa di Israele e quella dell’Ucraina costituiscono in realtà una salvaguardia sola, quella della democrazia e dei suoi valori, di cui gli Stati Uniti si sono eretti a baluardo mondiale dalla fine della Prima guerra mondiale in poi. Il destino dell’unica democrazia mediorientale e quello della nazione dell’Est Europa si intreccia quindi a doppio filo con quello degli Usa, garanti risoluti del perimetro liberale e, obtorto collo, impossibilitati a non esercitare il ruolo di attore principale della sua salvaguardia, ben oltre i confini del proprio spazio nazionale.

In questo senso, a seguito dell’interventismo in Europa con il costante supporto economico e militare dato all’Ucraina per contrastare l’aggressione russa, gli Stati Uniti si trovano costretti a tornare a esercitare il loro ruolo anche in Medio Oriente, retrocedendo dalla posizione che avevano assunto sotto le presidenze di Barack Obama e Donald Trump. Ovvero un lento e inesorabile arretramento per poter concentrare maggiormente la loro attenzione e le loro risorse nel Pacifico, in funzione anti-cinese. La volontà di Obama di non restare coinvolto nella guerra in Siria aprì di fatto le porte all’ingresso della Russia, regalando a Vladimir Putin il ruolo di arbitro del conflitto e consentendo alla Russia di acquisire una rilevanza regionale che non possedeva più da decenni. Questa stessa linea di defilamento venne poi proseguita da Trump, il quale, pur essendo stato il presidente americano che più di ogni altro si è speso a favore di Israele e delle sue ragioni, considerava il Medio Oriente come una regione in cui gli Stati Uniti dovevano impegnarsi lo stretto necessario. Contrastare l’Iran, certamente. Ma, allo stesso tempo, senza spendersi per rivendicare un ruolo regionale di primo piano. I recenti drammatici fatti accaduti in Israele hanno modificato in modo drastico la postura americana. Il messaggio di vicinanza a Israele si è trasformato rapidamente in una sottolineatura esplicita della presenza statunitense nella regione e in un ulteriore messaggio dato soprattutto a Mosca e a Teheran ma anche alla Cina, la cui penetrazione in Medio Oriente si è fatta sempre più cospicua.

Nel suo discorso rivolto agli americani, Biden ha chiarito in modo esplicito chi sono i nemici con cui gli Stati Uniti devono fare i conti, posizionando sullo stesso asse la Russia e Hamas, accomunati dall’avere aggredito due Paesi democratici e dall’essere affini nell’avversione per l’ordinamento liberale. Nuovamente dunque, e necessariamente, la difesa dell’Occidente e dei suoi valori si contrappone a potenze e formazioni terroriste che gli sono fisiologicamente avverse, e che, pur nella diversità specifica dei loro obbiettivi, appartengono alla stessa costellazione, costretta a doversi confrontare con quella che è ancora oggi la maggiore potenza economica e militare del pianeta, gli Stati Uniti, a loro volta obbligati a non potere rinunciare a esserlo. Ecco perché la guerra di Israele non è solo un conflitto regionale, come non lo è la guerra in Ucraina. Sono, infatti, scontri bellici iscritti in una partita assai più grande, la più vecchia sul teatro della storia. Quella per l’egemonia.

Aggiornato il 24 ottobre 2023 alle ore 09:44