No, non è una guerra!

Un’operazione di polizia internazionale

Perché si continua a parlare di “Due guerre”? L’una russo-ucraina alle porte dell’Europa e l’altra che dal 7 ottobre 2023, il “Sabato nero”, contrappone Israele ad Hamas? Qui, nell’attuale scenario caldissimo del Medio Oriente, si sta parlando di truppe corazzate con la Stella di Davide contro kalashnikov, cinture esplosive, razzi più o meno rudimentali e tanto, infinito odio per compensare l’imminente sacrificio di molti miliziani palestinesi. In campo aperto, a Tsahal (l’esercito israeliano) sarebbero sufficienti pochi giorni per eliminare definitivamente la resistenza armata di Hamas da Gaza. Quindi: quella tra Israele e Hamas “non è una guerra!”, non fosse altro che per una questione di pura simmetria, ma semmai un’attività antiguerriglia (tipica del Sud America), in cui un esercito regolare ha la totale supremazia aerea e la usa per colpire le “basi” dei terroristi, in questo caso (e qui sta il dramma!) collocate all’interno di insediamenti urbani densamente popolati. Viceversa, quando si parla di Ucraina e Russia, loro sì che sono in guerra, con centinaia di migliaia di caduti da una parte e dall’altra, e un numero enorme di mezzi corazzati e armamenti sempre più avanzati che si confrontano direttamente sul campo.

Invece, l’azione militare di Israele è assimilabile in senso lato a quella che fu messa in atto dalla coalizione internazionale anti-Isis. Si trattò allora di un’operazione di polizia finalizzata a liberare una vasta porzione di territorio siro-iracheno, conquistato con la forza delle armi da un gruppo di terroristi islamici, organizzati in un quasi-Stato autoproclamato dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma mai riconosciuto da nessun Paese al mondo. Mentre, al contrario, lo “Stato di Palestina” è oggi riconosciuto da ben nove Paesi Ue. In buona sostanza, l’ingresso imminente dell’esercito israeliano a Gaza può essere tranquillamente equiparato a un’operazione unilaterale di “Polizia internazionale” (in linea ideale non dissimile da quella intrapresa da George Bush in Afghanistan, per farla finita con Bin Laden e Al-Qaeda), per tagliare la testa all’Idra terrorista di Hamas. In effetti, dal punto di vista del terrorismo internazionale, quale differenza vedete voi con l’Hamas di Gaza, definito internazionalmente come una formazione politico-terrorista di stampo fondamentalista islamico, che ha dato prova nel Sabato nero di non avere problemi a impiegare gli stessi criteri e i mezzi genocidiari dell’Isis, uccidendo migliaia di civili inermi solo perché “ebrei”?

Quale differenza esiste in chi vuole il genocidio degli eredi di Abramo e la loro cancellazione fisica dalle mappe geografiche del Medio Oriente, manifestando le “stesse” ambizioni, scopi e intenti vantati all’epoca (pochissimi anni fa!) dallo Stato islamico? Allora, perché due pesi e due misure? Chi risiedeva nello pseudo territorio di quello Stato autoproclamato era una popolazione totalmente solidale con gli jihadisti, ne rispettava le regole e voleva vivere in quel sistema teocratico. Esattamente come oggi la popolazione di Gaza vuole la leadership politica di Hamas, avendolo votato nel 2006 (ma, in base ai sondaggi, i palestinesi della odierna Cisgiordania farebbero lo stesso!) e di cui ne ha accettato senza ribellarsi la dittatura successiva. Hamas, però, al contrario del monolite puramente islamico dell’Isis, è un Giano bifronte, articolato in un’ala militare e in una sua gemella “politica”. Insomma, dove si trova la differenza fondamentale tra l’Isis di ieri e l’Hamas di oggi? Semplice e disarmante: “loro”, gli jihadisti, hanno dichiarato unilateralmente una Guerra Santa contro il resto del mondo miscredente; mentre la guerriglia eterna dell’Olp e di Hamas si colloca saldamente nel retaggio storico-politico e altamente drammatico della “Questione palestinese”.

Ed è questo enorme enjeux politico di risonanza mondiale a concentrare milioni di manifestanti pro-Palestina e Hamas nelle principali piazze delle capitali arabe e mediorientali, cosa mai accaduta nemmeno per piccoli numeri all’epoca dell’Isis. Ora, quella questione eternamente irrisolta interroga a fondo la nostra cattiva coscienza: non fummo forse noi occidentali, Inghilterra in testa a tutti (in quanto aveva la responsabilità post-1945 di gestire la fine del suo protettorato in Palestina), a sabotare assieme agli arabi la risoluzione 181 dell’Onu del 30 novembre 1947? Quella cornice giuridica stabiliva la divisione della Palestina in due Stati, uno arabo e l’altro ebraico, prevedendo altresì il controllo dell’Onu su Gerusalemme e la fine del mandato britannico il prima possibile, e comunque non oltre il 1º agosto 1948. La decisione fu accolta con voto favorevole da 33 nazioni, 13 contrari, tra cui gli Stati arabi, e l’astensione di 10 nazioni.

Lo stesso Regno Unito era tra gli astenuti, rifiutandosi apertamente di seguire le raccomandazioni del piano, ritenendo che si sarebbe rivelato inaccettabile sia per gli ebrei che per gli arabi. E, allora, che senso aveva lasciare che uno dei due contendenti storici prevalesse sull’altro con la forza delle armi nel primo conflitto arabo-israeliano del 1948? Ora, quali saranno i costi dell’invasione di Gaza per Israele e per il mondo? L’Egitto non si riprenderà mai la Striscia dalla quale l’esercito israeliano si è ritirato quasi venti anni fa, a seguito dell’insostenibilità logistica e militare della precedente occupazione. Ed è sempre vero che in tempo di guerra bisogna saper coniugare i mezzi con le finalità politiche della guerra stessa. Ma quello che può essere conseguito sul campo di battaglia dipende dagli scopi del nemico e da ciò che quest’ultimo sarà in grado di mettere in gioco. Poiché è chiaro che Israele non potrà trattare con Hamas, rimane l’incognita serissima se Tel Aviv sarà in grado di mettere a segno l’eradicazione dei suoi miliziani dalla Palestina. Qualora questo obbiettivo non potesse essere raggiunto, allora il ciclo delle violenze non si arresterà.

Come già accaduto agli Usa in Iraq nel 2003 e in Afghanistan nel 2021, la storia insegna che è estremamente problematico combattere in posti dove non si è benvenuti e per di più le condizioni sul terreno sono particolarmente sfavorevoli, per cui la determinazione a restare è spesso insufficiente. La vera domanda da porre a Israele ed Hamas è molto semplice: “Che cosa sperate di ottenere da questo conflitto rispetto a quanto non avete ottenuto prima, dopo altre decine di scontri avvenuti in passato?”. Se l’assalto di Hamas si fosse limitato al sequestro di ostaggi, senza commettere altre atrocità, allora si poteva sperare in una trattativa per lo scambio di prigionieri, come avvenuto in precedenza. E, invece, adesso? Fare della Palestina un nuovo protettorato internazionale e reinsediare per la sua gestione un leader delegittimato come Abū Māzen? Tutto dipenderà dall’esito delle operazioni di terra e da attori internazionali come Iran e Hezbollah. E l’orizzonte in tal senso rimane sul nero stabile, anche per il prevedibile, notevole numero di “vittime collaterali” palestinesi.

Aggiornato il 24 ottobre 2023 alle ore 09:42