Libia-Israele: l’ombra degli “Accordi di Abramo” aleggia su Roma

La Tripolitania, non la Libia, soffre di una precaria stabilità, minata da continue crisi socio-politiche. È governata da Abdul Hamid Dbeibeh, capo del Governo di unità nazionale con sede a Tripoli, che rappresenta la parte politica meno spontanea di questo strategico Paese nordafricano. Infatti, le tre grandi regioni libiche – Tripolitania, Cirenaica, Fezzan – hanno dei connotati politici diversi. Così, l’Esecutivo della Tripolitania, che impropriamente viene generalizzato come “Governo libico”, resta l’espressione di una volontà internazionale, tanto per non scendere nei dettagli; la Cirenaica è saldamente nelle mani di un potente leader riconosciuto dal popolo, il maresciallo Khalifa Haftar; il Fezzan, ben delineato a livello tribale, preferisce strizzare l’occhio al potente Governo cirenaico, piuttosto che a quello imposto dall’Occidente in Tripolitania.

L’incontro del 27 agosto tra il ministro degli Esteri libico – più esatto sarebbe definirlo della Tripolitania – Najla El Mangoush e il suo omologo israeliano, Eli Cohen, oltre ad avere provocato reazioni estreme all’interno del Governo di Tripoli, ha sottolineato le debolezze di un Esecutivo condizionato dalle pressioni internazionali, al quale si contrappone la volontà popolare e di una parte della politica, che faticano a riconoscere l’autorità di Dbeibeh. Pertanto, dopo la notizia dell’incontro di Roma tra “una libica e un israeliano”, il Consiglio presidenziale tripolino ha chiesto “chiarimenti” su questo vertice al capo del Governo di unità nazionale, ricordando che l’azione intrapresa dal responsabile della diplomazia di Tripoli non rappresenta la traccia della politica estera dello Stato libico (della Tripolitania), non tratteggia le consuetudini nazionali libiche ed è considerata una violazione delle leggi libiche che criminalizzano la “normalizzazione dei rapporti” con l’entità sionista. Tutto ciò che fa riferimento alla Libia deve essere declinato in Tripolitania.

Najla El Mangoush si è affrettata a definire l’incontro di Roma “casuale e non ufficiale” – durante il quale ha anche incontrato Antonio Tajani, il suo omologo italiano – e che il tavolo tra i capi delle rispettive diplomazie non ha sortito nessun documento ufficiale. Tuttavia, l’imbarazzo del “Governo della Tripolitania, telecomandato dall’Occidente”, è forte. Infatti, nessuna giustificazione è servita a placare il dissenso popolare, che ha portato la folla dei manifestanti davanti alla sede del Governo di Tripoli per chiedere la caduta dell’Esecutivo. Inoltre, altri manifestanti hanno appiccato il fuoco alla residenza del primo ministro Dbeibeh, ubicata a est della capitale. Anche in altre città della Tripolitania come Tadjourah e Zaouïa, a est e a ovest di Tripoli, si sono verificate sommosse popolari contro il Governo. Dbeibeh ha dovuto sospendere dall’incarico la ministra Najla El Mangoush, assicurando che sarà attivata una commissione che dovrà verificare, tramite un’indagine amministrativa, se la ministra abbia superato i limiti delle sue competenze. Intanto, lunedì scorso il primo ministro, sotto forte pressione politica, ha dovuto formalizzare il “licenziamento” di El Mangoush, ufficializzato nel corso di una tesa riunione all’interno dall’ambasciata palestinese di Tripoli, struttura diplomatica mantenuta totalmente con le risorse del Paese accogliente, come è generalmente di prassi negli Stati arabo-musulmani. L’ormai ex ministro Najla El Mangoush si è rifugiata in Turchia, Paese raggiunto con un aereo governativo.

La rappresentante della diplomazia di Tripoli, probabilmente, ha agito non valutando coscientemente le conseguenze di avere cercato di imboccare una strada che altri Stati arabi hanno recentemente già percorso, cioè quella della “normalizzazione dei rapporti” con Israele. Certamente, il primo ministro era a conoscenza dell’incontro; infatti, risulta che alcuni funzionari di Tripoli, in assoluto anonimato, hanno comunicato all’Associated Press che la visita a Roma era nota. Ma è anche noto che ‏Dbeibeh aveva già dato dei segnali chiari sulla volontà di aprire una strada di dialogo con Israele: una fase “embrionale” degli Accordi di Abramo.

Va ricordato, in un quadro più ampio, che El Mangoush ha rivelato di essersi rifiutata di incontrare qualsiasi partito che potesse rappresentare l’entità israeliana e che il Governo di Tripoli è stato ufficialmente chiaro nel mantenere la sua posizione rispetto alla “causa palestinese”. In più, Tripoli ha denunciato una strumentalizzazione da parte dei media ebraici e internazionali di quanto avvenuto a Roma, presentando il vertice come un incontro con dialoghi costruttivi. Il ministro israeliano Eli Cohen ha altresì dichiarato di aver avuto con la sua omologa tripolina la garanzia che il patrimonio culturale dell’ebraismo libico sarà preservato, attraverso anche il restauro delle sinagoghe e dei cimiteri ebraici presenti in questa regione. Aggiungendo, poi, che la posizione strategica della Libia offre enormi opportunità allo Stato di Israele.

Si tratta di un primo passo nelle relazioni tra Israele e Libia, o meglio tra Israele e la Tripolitania? Intanto gli Accordi di Abramo, sotto l’egida degli Stati Uniti, hanno visto Israele stabilire rapporti formali e utili con il Marocco, gli Emirati Arabi, il Bahrain e il Sudan, aprendo grandi spazi di dialogo con l’Arabia Saudita. Tuttavia, l’attuale politica del Governo di Benjamin Netanyahu è criticata da molti Paesi arabi, che lamentano l’ondata di violenza nella Cisgiordania occupata e la continua colonizzazione di parte di questo territorio.

Ma sugli Accordi di Abramo piange la Palestina, che vede vacillare la sua esclusiva posizione di “vittima” anche agli occhi di molti Stati del mondo arabo. In attesa che la Cirenaica di Khalifa Haftar avvii colloqui con Israele, che probabilmente potrebbero sortire interessanti sviluppi.

Aggiornato il 05 settembre 2023 alle ore 11:15