Blitzkrieg addio: lo stallo delle armi

Dal 24 febbraio 2022 il mondo è radicalmente cambiato a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Solo che il tutto non è avvenuto come era stato pensato e poi assai maldestramente eseguito dagli Stati maggiori dell’Armata Rossa. Voleva essere all’inizio un Blitzkrieg alla maniera hitleriana, con la presa di Kiev in pochi giorni, e ci si è invece impantanati in una lunga guerra di attrito e di posizione in cui, dopo l’occupazione russa del Donbass, si susseguono offensive e controffensive, con insignificanti guadagni e perdite di territori dall’una come dall’altra parte. L’esercito di Mosca ha passato sia la trascorsa stagione autunnale che quella invernale a scavare trincee, tunnel sotterranei e a costruire ben tre livelli successivi di fortificazioni. Sbarramenti questi ultimi di fatto inespugnabili per gli ucraini, a meno di mettere in conto perdite di molte decine di migliaia di uomini e migliaia di mezzi blindati e d’assalto, soprattutto per il superamento dei campi minati. Certo, occorreva dichiarare dal giorno dopo dell’invasione una no-fly-zone sull’intero territorio del Paese invaso ma, in questo caso, sarebbe stato necessario dispiegare in soccorso dell’Ucraina l’intero potenziale della Nato per la necessaria copertura aerea e antimissile, spostando per di più le batterie oltre i confini dell’Alleanza. Impossibile concretamente, a meno di non accettare la logica di una Terza guerra mondiale, nella speranza di limitarla agli armamenti convenzionali. Solo successivamente l’eroismo e la volontà di resistenza degli ucraini hanno consentito all’Occidente di arginare e contenere l’avanzata russa, grazie alla fornitura di armamenti moderni e sempre più letali e all’addestramento rapido dei suoi contingenti, da impiegare sul vasto fronte di guerra.

Ovviamente, il prezzo da pagare in termini di efficienza (frequente in molte delle guerre per proxy) è stato quello della promiscuità degli arsenali e, quindi, per fare un esempio, del difficile se non impossibile adattamento dei proiettili di artiglieria di produzione Nato, da impiegare in obici e cannoni di fabbricazione sovietica. Al contrario, fin dall’inizio delle ostilità Mosca non ha avuto alcun problema a sostenere la sua tempesta di fuoco, martellando quotidianamente l’Ucraina con decine di migliaia di colpi di artiglieria e con missili subsonici e ultrasonici lanciati da terra mare e cielo. Il tutto a distanza di sicurezza per consentire a navi, aerei e batterie a terra russi di colpire obiettivi civili (soprattutto) e militari nemici senza timore di ritorsioni, a causa della netta inferiorità da parte di Kiev per la parte che riguarda sia la quantità e qualità degli armamenti, sia la mancanza di copertura aerea per la fanteria e i mezzi corazzati ucraini. Se all’inizio l’Ucraina aveva tratto enorme vantaggio dall’impiego e dalla produzione domestica di droni, da un certo punto in poi Mosca, grazie alle forniture iraniane di Shahed 136 (di cui è stata impiantata una fabbrica in territorio russo con le varie versioni d’attacco), ha letteralmente ribaltato a suo favore la situazione sul campo. Idem per quanto riguarda la produzione di missili a guida gps, che necessitano di componenti elettronici e di semiconduttori avanzati, solo in teoria embargati dall’Occidente. In realtà, la Russia è riuscita ad adattare la sua industria bellica alle nuove esigenze, ricorrendo a forniture di tipo dual-use provenienti soprattutto dalla Cina e dal mercato nero.

Ora, poiché in una guerra di attrito vince chi ha più risorse, soldati e armi da mandare al fronte, la Russia ha praticamente già vinto sulla lunga distanza la partita del logoramento e dello stallo, avendo convertito in economia di guerra il suo apparato produttivo. La sua enorme ricchezza in materie prime le consente, infatti, di continuare a vendere gas e petrolio al resto del mondo, grazie a Nazioni amiche compiacenti che li acquistano a costi inferiori a quelli di mercato, per poi rivenderli a prezzo pieno sui circuiti internazionali. In secondo luogo, il suo basso deficit pubblico permette al regime putiniano di dispensare sussidi a pioggia ai cittadini russi meno abbienti, per attenuare l’effetto delle sanzioni e la perdita del potere di acquisto del rublo.

L’Ucraina, al contrario, ha continuato sempre più a dipendere per la sua difesa territoriale dalle forniture occidentali, a causa della sistematica distruzione dei suoi impianti bellici. In breve tempo, tuttavia, la Nato ha terminato le sue scorte di proiettili di artiglieria, di batterie antimissile e mezzi corazzati da poter cedere all’Ucraina. Il tutto, senza mai poter tenere il passo con i ritmi forsennati dell’industria russa degli armamenti, che ha continuato imperterrita a produrre a cadenza mensile un numero impressionante di munizioni e centinaia di missili.

L’ultimo episodio relativo all’eliminazione fisica del capo della Wagner ha inviato al resto del mondo un preoccupante segnale di stabilità del regime putiniano, che sembra non avere affatto perduto l’appoggio degli apparati militari e di intelligence e della corte degli oligarchi. Vladimir Putin, dopo aver tolto di mezzo lo scomodo ex amico-nemico Yevgeny Prigozhin (a conoscenza di troppi segreti compromettenti per poter essere mantenuto in vita), ha deciso per decreto il passaggio dei miliziani del Gruppo Wagner sotto il controllo dei militari di carriera. Mossa resa possibile, in primo luogo, grazie all’imposizione ai comandanti della Wagner di riconsegnare l’intero armamento pesante (missili, cannoni, mezzi blindati), messo a loro disposizione dall’esercito russo, in modo da evitare una sciagurata riedizione del tentato colpo militare di giugno scorso. In secondo luogo, è stata tagliata la chioma al Sansone wagneriano smembrandone gli effettivi, disseminati tra Bielorussia, Africa e Russia, in quest’ultimo caso ponendoli in congedo oppure obbligandoli a confluire nei ranghi e nei reparti ordinari dell’esercito russo.

Ciò che, però, rimane fuori dal decreto presidenziale è la necessità di continuare a finanziare, addestrare e dislocare truppe mercenarie in teatri come quelli africani, per dare manforte (e, al limite favorire altri colpi di mano soprattutto nel Sahel) ai regimi militari in funzione antioccidentale e pro-autocrazie, senza mai ufficializzare in merito il coinvolgimento diretto di Mosca. D’altra parte, l’esistenza di truppe mercenarie consente al regime russo, grazie a convenzioni compiacenti, di continuare a scambiare materie prime pregiate (oro e diamanti, in particolare) in cambio di protezione e copertura antiguerriglia, soprattutto per quanto riguarda il contenimento delle milizie islamiche. Anche qui: come mai nel caso della Siria i russi sono venuti rapidamente a capo (con grande brutalità, occorre dire) della rivolta degli estremisti musulmani, mentre oggi mantengono a bagnomaria interi Paesi africani, minacciati da Boko Haram e dall’Isis, senza risolvere il problema alla radice con un irresistibile affondo militare? E se fossero i fondamentalisti un altro instrumentum regni dell’imperialismo putiniano, come lo furono i talebani per Washington durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan?

Aggiornato il 30 agosto 2023 alle ore 10:29