Dopo aver annunciato la nazionalizzazione dei beni di Danone e Carlsberg, Vladimir Putin è passato a nuove forme di requisizione di beni. Fino ad ora, gli investitori occidentali sono stati espulsi dalla Russia, costringendoli a vendere i loro asset per importi irrilevanti, ora vengono semplicemente derubati. A metà luglio, Putin, con apposito decreto, ha trasferito all’Agenzia federale per la gestione del patrimonio statale (Rosimushchestvo) “la gestione temporanea” degli asset russi di due grandi società europee, la francese Danone e la danese Carlsberg. Queste due aziende sono accomunate sia dal fatto che la loro presenza in Russia era molto più significativa di quella della maggior parte delle multinazionali (Danone aveva circa il 5 per cento dei ricavi dalla Russia, Carlsberg – almeno il 10 per cento), sia perché entrambe avevano già trovato acquirenti per i loro beni in Russia e trattative quasi concluse per la loro alienazione. Gli investimenti totali di Danone, da quando l’azienda è entrata nel mercato russo, ammontano a circa 2 miliardi di dollari, quelli della Carlsberg a più di un miliardo di dollari. Questa espropriazione su larga scala ha lanciato un nuovo round del processo, che possiamo definire la più grande rapina della storia subita da investitori stranieri.
Inizialmente, il Cremlino ha cercato di limitarsi a spingere gli investitori fuori dal Paese costringendoli a vendere i beni posseduti a “persone appositamente designate” per una piccola percentuale del valore reale e addebitando anche una tassa beffarda su questi magri proventi. Un tale schema, a partire dall’aprile 2023, ha contribuito a sottrarre proprietà per 30-34 miliardi di dollari (ovvero 30 volte di più di quanto il governo abbia guadagnato nelle memorabili aste di “prestito-contro-azioni” del 1996 e cinque volte di più di quanto le multinazionali hanno perso in Venezuela per effetto delle politiche di Hugo Chávez e Nicolás Maduro).
Il “furto” operato dal Cremlino in danno agli investitori stranieri ha dimostrato tutta la spregiudicatezza di Mosca che, attraverso questa nazionalizzazione, ha archiviato le transazioni come concluse “volontariamente”, annullando la possibilità di contestarle, per ottenere un equo risarcimento, da parte delle aziende interessate. D’altro canto, l’interesse famelico dimostrato dal cleptomane che vive al Cremlino è andato – man mano – crescendo, perché i beni sequestrati agli investitori stranieri erano indispensabili per poter placare le imprese vicine al “trono”. Putin intende utilizzare gli asset nazionalizzati anche per premiare i suoi fedelissimi, affidando loro la direzione di queste aziende. C’è anche un’altra motivazione dietro a questa scelta. Più di mille aziende occidentali hanno annunciato la loro intenzione di lasciare il mercato russo, ma non tutte hanno concretizzato tale scelta. Mosca, attraverso questo furto legalizzato, vuole mettere in atto una minaccia – simile alle intimidazioni mafiose – verso coloro che ancora esitano sul da farsi, lasciando intendere che il prezzo che potrebbero dover pagare, nel caso vogliano preservare i principi di una economia etica, sarebbe la perdita di tutti i fondi investiti in Russia. Si tratta di soldi e potere, nient’altro.
In passato, il Cremlino aveva già trasformato gli affari con l’Europa nella sua “quinta colonna”, attraverso cui ammorbidire le reazioni politiche alle azioni della Russia. Fin dall’inizio del governo di Putin, l’economia russa è cresciuta in gran parte grazie agli investimenti stranieri. È così che sono stati costruiti interi comparti industriali come quello dell’automotive o dell’ingegneria dei trasporti. È ingenuo sia sperare che Putin fermi questa scellerata politica economica sia ipotizzare che possa esserci un ritorno a modi civili per gestire gli affari e gli investimenti in Russia. Ecco perché l’Occidente dovrebbe pensare a una serie di risposte, altrettanto semplici, ma al tempo stesso piuttosto efficaci.
Partendo dal presupposto che il Cremlino intende mantenere in funzione le fabbriche requisite, la prima risposta dovrebbe essere la creazione di condizioni in cui ciò diventi impossibile. Occorre, per esempio, creare un meccanismo sanzionatorio per aziende e privati che risultino beneficiari di beni nazionalizzati dalla Russia o che fungano da interlocutori chiave per i nuovi proprietari di aziende sottratte a investitori occidentali. Non tutte le contromisure risultano di così semplice attuazione. Ad esempio, nel caso della stessa Danone o Carlsberg, è ovvio che queste due società, lavorando per il mercato interno, non dipendono in modo significativo dalle vendite all’estero. Tuttavia, Danone, fin dal suo arrivo in Russia, ha creato una filiera in cui l’80 per cento della materia prima proviene da due aziende europee: la francese Danisco e la danese Chr. Hansen As.
Con l’attività di produzione della birra, la situazione è ancora più interessante: in Russia nel 2022, il raccolto di luppolo è notevolmente aumentato, raggiungendo la produzione record di 200 tonnellate complessive, ma l’industria ha bisogno di 9mila tonnellate. Ecco perché, il resto del fabbisogno viene importato dalla Repubblica ceca e dalla Germania. L’esportazione in Russia del lievito madre e del luppolo non sono vietate, poiché si tratta di prodotti alimentari non soggetti a sanzioni, ma perché non introdurli in blacklist – quale risposta alle azioni del governo russo di nazionalizzare i beni occidentali delle industrie di produzione dello yogurt e della birra? Una simile scelta costituirebbe un segnale forte e chiaro per il Cremlino: qualsiasi industria che Mosca intende espropriare verrà lasciata senza le materie prime necessarie per proseguire la propria produzione. Il passo successivo dovrebbe essere la compilazione di un registro delle perdite che le imprese europee subiscono in Russia, in analogia con il già avviato processo di documentazione e calcolo dei danni causati dalla Russia all’Ucraina. L’ammontare del valore contabile residuo dei cespiti all’inizio del 2022 è quantificabile attraverso i bilanci delle società, che sono stati incorporati nei bilanci delle rispettive capogruppo. Non sarà, quindi, difficile calcolare il danno cagionato da Mosca, tenendo conto degli importi pagati. A livello dell’Ue, si potrebbe decidere di creare un fondo di compensazione – e poiché i Paesi del G7 hanno recentemente annunciato che le sanzioni sui beni russi non saranno revocate fino a quando la Russia non risarcirà l’Ucraina per i danni causati, una decisione simile potrebbe essere presa anche in favore delle aziende i cui beni sono stati nazionalizzati dal Cremlino.
Il danno subito da tali aziende potrebbe essere coperto dalle risorse della Banca di Russia e di altre società russe con partecipazione statale congelate nelle giurisdizioni europee. I governi europei dovrebbero affermare in modo inequivocabile che le requisizioni di proprietà straniere in Russia non sono materia di contenzioso tra “entità economiche”, ma riceveranno una risposta chiara dall’Ue e dai singoli Paesi in cui sono registrate le società che hanno perso i loro beni.
(*) Docente universitario di Diritto Internazionale e Normative sulla sicurezza
Aggiornato il 04 agosto 2023 alle ore 09:34