Francia: la dis-integrazione interculturale

Banlieue, periferia. Già nel suo significato questa parola determina una locazione geografica precisa. In più, nel caso “francese”, rappresenta una toponomastica dal significato negativo. Inoltre, questo lemma ha sulle “spalle” una pesante eredità semantica, scolpita sulla pietra dell’inconscio del linguaggio. Così, il termine “banlieue” ha oggi riesumato ancora una volta il suo infame fardello. Una voce negativa, disastrosa, e forse funesta. Definisce un territorio emarginato, escludente, relegante. Ma da quando è stata demarcata l’esistenza di questi quartieri, da alcuni punti di vista ci sono stati miglioramenti. Dall’altra parte, si sono anche espansi molto, forse troppo. Una dilatazione, quindi, fatta da vicoli e strade. Quartieri abitati da una tipologia di umanità ben delineata e ben conosciuta, in crescita. Aree dove i tassi demografici sono sulla soglia della “criticità sociologica”: tassi di natalità alti, età media bassa, una miccia antropologica pronta a far esplodere qualsiasi comunità, soprattutto se frustrata e carica di odio.

Ma chi abita nelle Banlieue? La stragrande maggioranza di queste persone è il frutto di una o più generazioni di immigrati giunti in Francia dalle ex colonie dell’Impero transalpino, anche se per la Francia “ex” è sempre opinabile. La “République” ha operato in questi contesti sociali con un sistema politico sulla linea dell’impostazione coloniale, dei condizionamenti e delle limitazioni economiche, culturali e sociali. Una sorta di differenziazione di Stato, partendo dalla presenza di una polizia repressiva, con organismi statali poco “accoglienti”. Insomma, una dis-integrazione interculturale latente cronica e strutturata, ma forse inevitabile, che vede studenti galleggiare in sistemi formativi che tendenzialmente rifiutano, ricercando le loro esigenze in una cultura proiettata verso l’islam. Qui precarietà e disoccupazione si scontrano con un sistema statale socio-lavorativo blando, che favorisce la creazione di “nicchie sociologiche” autosostenute e in contrappeso alla emarginazione di Stato. Quindi sono francesi, ma spesso trattati da citoyens cittadinidi serie D. Per quelli non francesi la battaglia è con i permessi di soggiorno; una burocrazia lunga che aggrega questa comunità in processioni davanti agli sportelli della prefettura dove spesso sono irrisi. Ma anche in questo contesto il “clandestino” è presente e accolto; così facilmente plagiabile, anche lui, dai sistemi sociali basati sull’estremismo islamico, presente nelle Banlieue. Però vanno anche ricordati gli investimenti statali che su questi contesti gravitano, come il Programma 147 “politiche urbane”, che ha destinato importanti fondi nelle ultime leggi finanziarie. Esistono, inoltre, anche meccanismi perequativi destinati ad aree urbane svantaggiate, oltre ad agevolazioni tributarie legate alle politiche urbanistiche e alla riqualificazione.

Tuttavia, la storia delle Banlieue ha avuto un inizio a ottobre 2005, quando tre ragazzi sotto i diciotto anni per sfuggire allo “sguardo” della polizia francese si sono nascosti in una cabina elettrica. Qui sono stati investiti da una scarica di elettricità, mentre i loro genitori li attendevano per l’iftar, la fine del digiuno del Ramadan. Dopo avere subito l’incidente, le autorità di polizia e soccorso sono state accusate di non essere intervenute in aiuto dei tre giovani: solo il diciassettenne Muhittin Altun sopravvisse alle ustioni. Iniziarono le manifestazioni di protesta, esplose tre giorni dopo quando, per sedare i tumulti, la polizia causò una deflagrazione all’ingresso della moschea Bilal. È stato l’inizio della più grande rivolta delle Banlieue che i francesi abbiano mai sperimentato. In venti giorni i tumulti raggiunsero almeno duecento città, migliaia i veicoli bruciati e infrastrutture distrutte con un danno economico enorme. Solo l’istituzione dello “Stato di emergenza” permise un graduale ritorno alla normalità. Allora, furono impegnati oltre diecimila poliziotti, vennero arrestati circa cinquemila rivoltosi, oltre seicento restarono in carcere per reati vari.

Perché questa deflagrazione sociale che si ripete? Sicuramente non esiste una causa, bensì c’è una molteplicità di motivazioni: una sfida al liberismo, inadatto a convivere con queste comunità; una lotta contro la segregazione applicata dall’urbanistica delle Banlieue; una battaglia alla discriminazione verso i figli della colonizzazione, e anche il disprezzo per le modalità violente della polizia. Ma va considerato anche un altro aspetto, quel deserto politico esistente nei quartieri, che si potrebbe addebitare alla sinistra, ma pure tutti i governi da trent’anni a questa parte, sia di destra che di sinistra, ne condividono la responsabilità. La maggior parte di queste concause hanno un denominatore su base religiosa, che si radicalizza con l’acuirsi delle crisi sociali. Insomma, dal 2005 a oggi nulla è stato fatto per attenuare queste criticità.

Ora la realtà è che nel quartiere Pablo Picasso a Nanterre, martedì scorso, Nahel ragazzo di diciassette anni, figlio di algerini immigrati – è stato ucciso dal fuoco di un poliziotto durante un controllo stradale. La polizia ha effettuato in due giorni oltre un migliaio di arresti nel quadro di una violenza rara, come definita dal ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Tra le forze di polizia ci sono centinaia di feriti.

Sono stati mobilitati, per tentare di frenare il contagio della violenza urbana, circa 45mila poliziotti e gendarmi, oltre a unità d’élite come il Groupe d’intervention de la gendarmerie nationale, le Bri, Brigade de recherche et d’intervention, e il Raid, sigla tratta dalla tecnica di attacco militare. Ma le violenze non sono tanto contro la polizia, ma si manifestano soprattutto con la distruzione, i saccheggi e gli incedi di attività commerciali, banche, negozi, uffici vari, autoveicoli e sedi istituzionali come i municipi e le prefetture. E non è da sottovalutare il significato di avere incendiato anche molte biblioteche. Quindi, una prevista metamorfosi dello scopo della protesta, che supera lo scontro con le forze di sicurezza che “hanno ucciso” Nahel, e si concretizza con furti e distruzione di attività lavorative, quindi del sistema economico e culturale di vaste aree urbane, ma soprattutto tende a colpire la Repubblica nelle sue istituzioni fomentando azioni sovversive a carattere nazionale che vanno da Marsiglia a Parigi. E ora contaminano anche la città di Losanna in Svizzera, con il concreto rischio anche in altre città europee.

Una deriva anarchica che fa dimenticare l’uccisione del franco-algerino. Anzi, ormai la rende un pretesto, mettendo in luce una realtà di insofferenza ed odio latente verso le istituzioni repubblicane. L’ennesima dimostrazione del fallimento delle politiche di accoglienza e di integrazione, basate su una serie di utopie e illusioni che non leggono queste realtà sociali come incatenate indissolubilmente a un sistema religioso che, per ora, è solo un collante per la comunità stessa, e un fattore di intolleranza verso la laicità del sistema sociale in cui abitano e che disprezzano. Ma soprattutto si sottovaluta, o si ignora, quanto la Storia insegna, sia riguardo alle nazioni di provenienza, Paesi tendenzialmente golpisti, sia ai rapporti tra Oriente e Occidente, o meglio tra Vicino Oriente e Occidente.

Aggiornato il 03 luglio 2023 alle ore 10:05