Sudan: da guerra di potere a guerra etnica

Oltre due mesi di guerra in Sudan, tra l’esercito regolare, comandato dal generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Frs), guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, o “Hemetti”, hanno causato oltre due milioni e mezzo di profughi. Secondo l’Ong Acled, il conflitto scoppiato il 15 aprile ha lasciato sul campo oltre duemila morti, dati sicuramente ristretti vista la precarietà del controllo demografico che già soffre questa popolazione in tempi non di guerra civile. Così, una umanità fragile è fuggita dalle aree più colpite dagli scontri per cercare rifugio in aree relativamente e temporaneamente più sicure. Ma come era prevedibile in un’area dalla complessità tribale spiccata, questi conflitti hanno preso la deriva etnica, e stanno frustando soprattutto il Darfur, l’area sociologicamente e storicamente più complessa della regione. Qui i cadaveri frutto delle micidiali scorribande, tappezzano le strade. In questa vasta regione del Sudan occidentale al confine con il Ciad, si stanno verificando le violenze più letali. Un rapporto delle Nazioni Unite riferisce che solo nella città di Al-Geneïna, capitale dello stato del Darfur occidentale, sono state uccise oltre milletrecento persone. Sotto un sole che porta la temperatura ben oltre i quaranta gradi, i cadaveri rimangono nelle strade, e si avviano al processo di decomposizione, che conduce alle inevitabili epidemie di colera, in alcune aree già esplose anche perché molti abitanti sono costretti a bere l’acqua del Nilo o di altre fonti malsane.


I negozi sono saccheggiati e l’anarchia, la disperazione e la morte tratteggiano la vita quotidiana. Uno scenario infernale che pare quasi dimenticato dalle attenzioni mediatiche internazionali, assorbite dalla guerra in Ucraina e dalle “nuove dalla Russia”. Così, il generale dell’esercito regolare Dagalo, ha denunciato che il conflitto sta assumendo una fisonomia di lotta “tribale”, soprattutto ad Al-Geneïna, aggiungendo che i ribelli delle Fsr stanno fomentando sedizioni tramite la fornitura di armi ai civili. Da fonti locali emerge il dramma della popolazione, una massa di povera gente che incolonnata in una processione di sofferenza, con in spalla sacchi con gli averi, scappa verso i confini con il Ciad, ubicati a meno di trenta chilometri a ovest. In questo tratto la gente subisce perquisizioni, violenze e furti di quel “nulla” che ha con sé, bastonata dal fuoco incrociato di soldati regolari, paramilitari, bande delle tribù locali, e civili armati. Così, il Darfur noto per i suoi continui massacri interetnici, come nel 2003 dove assunse proporzioni tragiche, e che sistematicamente si verificano, l’ultimo nel 2021, si trova nuovamente a subire stragi su base etnica, incendiati dal conflitto per il governo del Paese. Infatti, gli scontri nel Darfur non sono solo tra esercito regolare e le Fsr, ma hanno ormai una dimensione etnica. Tale situazione è confermata dall’Unione Africana, l’Igad (l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo dell’Africa orientale), e l’Onu, che ammettono ormai la trasformazione del conflitto da “politico” a etnico. Ma sarebbe più specifico definirlo una combinazione tra le due forme di lotta.  

Ecco che si delineano i nuovi antagonisti. I combattimenti per il potere governativo, che con estrema facilità si sono trasformati in miliziani etnici, infatti i guerrieri Janjaweed, arabi, pastori tendenzialmente nomadi, sostenuti dalle Rapid Support Forces, si scontrano con le comunità nere africane, sedentari, agricoltori o allevatori, che hanno formato spontaneamente gruppi di autodifesa e vigilanza con tendenze anarcoidi. Insomma, una riproposizione conflittuale riconducibile soprattutto alla rivalità tra etnie. Filippo Grandi, alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), la settimana scorsa presente a Nairobi, ha raccomandato ai Paesi confinanti di non chiudere le frontiere. Un messaggio azzardato, in quanto non solo i profughi potrebbero sconfinare, esiste anche il rischio delle bande armate: un pericolo per la sicurezza dei Paesi vicini che sono governativamente fragili, quindi a rischio di destabilizzazione. Qual è l’attuale situazione sociale? Non ci sono segnali che il conflitto possa concludersi, e le necessità di aiuti umanitari hanno raggiunto livelli massimi. Inoltre, una dichiarazione del Danish Refugee Council ritiene vergognosi i finanziamenti a scopo umanitario destinati al Sudan, sottolineando la disparità dell’impegno economico-umanitario erogato per l’Ucraina, che ha toccato il 70 per cento, contro il 50 per cento delle donazioni promesse al Sudan.

Un’ulteriore fotografia che conferma le difficoltà strutturali che molti Stati africani hanno nel raggiungere e mantenere un equilibrio socio-politico minimo a garantire l’efficacia degli aiuti internazionali. Aiuti che spesso servono solo a conservare il piedistallo al despota di turno, che regolarmente sottoscrive cooperazioni militari con chiunque possa garantire il mantenimento del potere, Russia in testa. Ricordo che una guerra per il potere ha una durata determinata data dalla vittoria di uno dei contendenti, mentre i conflitti su base etnica possono sopirsi, ma sono eterni.

Aggiornato il 26 giugno 2023 alle ore 10:25