Finale di partita in Ucraina: come vincere perdendo

La controffensiva ucraina di giugno avrà lo stesso esito dell’offensiva russa di un anno fa? Se così fosse, sarebbe un pari e patta. Comunque, un grande successo per l’aggredito, visti i rapporti di forza iniziali che davano la vittoria russa a dieci contro uno. Il problema vero, però, è che le due porzioni di storia tra ieri e oggi non sono affatto né speculari, né complementari tra di loro. Questo perché i russi si difendono con ben altri trinceramenti in profondità rispetto a quelli iniziali dell’Ucraina, il cui territorio è stato minato dai loro nemici con milioni di mine per centinaia di migliaia di ettari. Un dramma colossale per il granaio del mondo, sul quale non una parola si è sentita né dalle parti del Vaticano, né del Palazzo di Vetro. Sfondare le linee dell’Armata rossa costerà a Kiev molto più caro del tributo in vite umane di civili e soldati, rispetto al prezzo già pagato a partire da febbraio 2022. Invece di chiedersi come potrebbe terminare l’attuale conflitto, vale la pena seguire il ragionamento a-contrario (cioè, come “non” dovrebbe finire) condotto sulle pagine del New York Times International Edition, da Bret Stephens, giornalista conservatore americano, con il suo intervento dal titolo: “An Endgame for Ukraine”. La prima cosa (condivisibile!) da non fare è di assecondare il ragionamento del presidente francese Emmanuel Macron, per cui “la Russia non va umiliata”.

Il che, in termini concreti, vale a dire che i russi dovrebbero tenersi i territori occupati con l’invasione di febbraio 2022. Due pesi e due misure smisurate, visto che al massimo dell’ipocrisia nessuno appare ricordare per inciso le milioni di pagine inchiostrate in tutte le lingue del mondo, con cui negli anni Settanta e Ottanta si malediceva e si imponeva all’occupante israeliano di ritirarsi con effetto immediato dai territori occupati palestinesi, che non erano nemmeno una nazione! E, oggi come ieri, è la fame energetica dell’Occidente, che prima dipendeva dal Medio Oriente e ora dalla Russia, il vero motore di quel ragionamento opportunistico, che nulla ha a che fare con la giustizia e il rispetto dell’integrità del territorio dei Paesi membri dell’Onu, così come iscritto nei sacro testo dei diritti umani. Asfissiato dal gas e annegato nel petrolio dei russi, il Global West ha giocato a imitare merkelianamente le tre scimmiette (non parlo; non vedo; non sento), chiudendo gli occhi sulle mire imperialistiche di Mosca, iniziate con l’invasione della Georgia, nel 2008, per finire all’occupazione della Crimea, nel 2014. Punita quest’ultima con blande sanzioni che hanno solo contribuito a convincere Vladimir Putin che poteva osare molto di più annettendosi addirittura l’Ucraina intera. Pertanto, lasciare a Vladimir Putin anche parte della sola preda ucraina, senza avergli tolto il vizio di seminare la guerra alle frontiere dell’Europa, significa autorizzarlo a fare un altro passo successivo, che tra l’altro ha già compiuto, con lo spostamento di testate atomiche non strategiche in Bielorussia.

A chi si chiede perché finora Putin non abbia fatto ricorso alle armi nucleari tattiche, Stephens offre una doppia risposta. La prima, politica: se lo avesse fatto, Joe Biden avrebbe dato seguito alla sua minaccia di conseguenze catastrofiche per l’autocrate di Mosca, come la totale distruzione della flotta russa stazionata nel Mar Nero, abbinandola con una forte risposta di warfare tradizionale da parte della Nato. La seconda osservazione è di tipo tecnico: quel genere di arma è stata disegnata per colpire divisioni corazzate schierate e concentrate in campo aperto, e quindi non ha nessun effetto significativo in un fronte lungo migliaia di chilometri. E che cosa dire a proposito di un possibile armistizio, così caro ai pacifisti da scrivania e da social, che non si sognano certo di manifestare la loro volontà ecumenista nelle piazze russe, rischiando così la propria vita per amore della pace? Semplice: lo strumento armistiziale serve per congelare il conflitto, dando al più forte la possibilità di recuperare le forze e di ricostituire i propri arsenali. L’aggredito, il più debole, invece, sarebbe in questo caso costretto riciclarsi in una sorta di Stato-guarnigione, anziché iniziare a risollevarsi economicamente: E, quindi, in questo caso non potrebbe mai funzionare da esempio l’armistizio tra le due Coree, in vigore dagli anni Cinquanta.

Da un lato, infatti, la potenza militare e nucleare della Russia (dato che l’ipotetica Ucraina del Nord diverrebbe “sacro” territorio russo a tutti gli effetti!) non è lontanamente paragonabile a quella della Corea del Nord attuale; mentre, dall’altro la pace tra il Nord e Sud Corea è stata garantita dalla presenza massiva, da settant’anni a questa parte, dell’esercito statunitense. E non c’è nessun cittadino americano disposto a tassarsi per finanziare la presenza americana in un’Ucraina del Sud, amputata del Donbass e della Crimea. Quindi, conclude Stephens, l’unica alternativa è un successo “temperato” di Kiev, perché una vittoria militare della Russia significa la dissoluzione di quel che resta dell’attuale ordine mondiale e la fine sostanziale della pax americana. In quest’ultimo caso, infatti, molti Paesi terzi del Global South sceglieranno di salire sul carro del vincitore, facendo pendere il piatto della bilancia geopolitica mondiale a favore delle grandi autocrazie.

Come accennato, la vittoria non potrà essere “piena” per Volodymyr Zelensky, dato che la riconquista della Crimea avrebbe un prezzo troppo elevato per tutti. Per l’Occidente, che sarebbe costretto a sostenere militarmente ed economicamente Kiev per almeno altri due anni, con il rischio che la propaganda putiniana prevalga in ampi settori dell’opinione pubblica occidentali, sempre più stanchi della guerra. Per la stessa Ucraina, che dovrà sostenere ancora centinaia di migliaia di perdite umane, con il risultato di militarizzare a carissimo prezzo tutti i territori riconquistati, ben sapendo che il nemico russo farà di tutto per riprendersi almeno la Crimea. Pertanto, per Stephens il punto di caduta finale è di accontentarsi del ritiro dell’esercito di Putin entro i confini del 23 febbraio 2022. A questo punto, il ripristino dell’equilibrio passa per i seguenti tre punti: una soluzione internazionale per garantire l’autonomia del Donbass; un accordo multilaterale che rassicuri Kiev, garantendo un “ombrello” Nato-Usa per il mantenimento della sua sicurezza; l’avvio rapido della ricostruzione dell’Ucraina con la costituzione di un congruo fondo internazionale pubblico-privato.

Aggiornato il 14 giugno 2023 alle ore 12:29