Mamma il turco! Si può battere Erdoğan?

Conto alla rovescia per la caduta dell’Uomo forte della Turchia? Per capirlo, occorre ripercorrere alcuni passaggi fondamentali della permanenza al potere negli ultimi venti anni del Presidente turco uscente Recep Tayyip Erdoğan che, a dire il vero, ne ha viste in vita sua di tutti i colori. Incarcerato per quattro mesi nel 1998 (alla fine del suo mandato come sindaco di Istanbul) e interdetto dai pubblici uffici per incitamento all’odio religioso, a causa delle sue posizioni ultra-islamiste, è riuscito non solo a ribaltare il verdetto ma, addirittura, a vincere cinque elezioni parlamentari di seguito, due elezioni presidenziali e ben tre referendum di cui un paio sulla riforma della Costituzione per il rafforzamento dei poteri presidenziali! Altro pericolo scampato è quello relativo al fallito colpo di Stato messo in atto dall’esercito il 15 luglio 2016, che ha consentito a Erdoğan di far approvare norme liberticide sulla libertà di stampa e di opinione, ai fini della tutela della sicurezza dello Stato. Ultima in tal senso, e in ordine di tempo, è la “Legge sulla disinformazione” approvata nel 2022 dal Parlamento turco. Il giornalismo indipendente in pratica non esiste più in Turchia, con centinaia di giornalisti ancora incarcerati e molti altri perseguitati strumentalmente da una magistratura asservita al regime. Per di più la libera stampa è stata nel tempo letteralmente espropriata della capacità economica di sostenere i propri costi editoriali, a seguito della concentrazione nelle mani degli oligarchi fedeli al regime della maggior parte delle testate giornalistiche e dei media. Ma, per il “Presidentissimo”, non sarà comunque una passeggiata vincere il 14 maggio, che vede abbinate in una sola tornata di voto le elezioni legislative e quelle presidenziali.

Ma quale sarebbe lo scenario più probabile (soprattutto per l’Europa) nel caso di sconfitta elettorale di Erdoğan? Verosimilmente, un simile evento non segnerà soltanto la fine di un’era, ma darà avvio a un terremoto politico destinato a stravolgere sia gli equilibri interni della Turchia che quelli dell’intera regione, propagando i suoi effetti al resto del mondo. Del resto, Ankara rappresenta l’undicesima economia mondiale e, al netto del costo della vita, è avanti per crescita economica a Nazioni come Canada, Italia e Corea del Sud. Per di più, la sua posizione nella Nato è oltremodo strategica e delicata, a causa della guerra ucraina alle porte dell’Europa e dei buoni rapporti personali esistenti tra Erdoğan e Vladimir Putin. Ankara continua a fare, come sempre, da cerniera tra il Vecchio Continente e il caotico mondo mediorientale, per non parlare del suo ruolo strategico di contenimento dei flussi migratori verso l’Unione europea. Malgrado le mire autocratiche di Erdoğan, la Turchia rimane uno dei rari regimi musulmani dotato di istituzioni democratiche, almeno sotto il piano formale, anche se il suo attuale presidente ha fatto di tutto per depotenziarle, con particolare riferimento all’indipendenza della magistratura. Sul piano economico, nella prima decade del suo Governo Erdoğan è riuscito a tenere sotto controllo l’inflazione e ad aumentare il reddito pro-capite, tendenze positive queste ultime che si sono letteralmente ribaltate nel secondo decennio, con il ritorno di un’inflazione a doppia cifra e il crollo del 15 per cento del tenore di vita dei cittadini turchi.

Il presidente turco in questi ultimi venti anni si è particolarmente distinto per i suoi voltafaccia, di cui rappresenta un fulgido esempio l’atteggiamento nei confronti della minoranza curda, dato che Erdoğan negli anni iniziali aveva goduto dell’appoggio dei curdi per rafforzare il suo potere personale, salvo a rivoltarsi successivamente contro di loro, trattando i suoi leader come terroristi da incarcerare. Idem per i rapporti con gli Usa e la Ue, che avevano accolto Erdoğan alla stregua di un sincero democratico, salvo poi accorgersi con grave ritardo dell’esatto contrario. A sfavore della rielezione del leader turco giocano alcuni fattori determinanti soprattutto di tipo economico, a causa della svalutazione del 60 per cento della lira turca e la fuga degli investitori internazionali dal Paese. Questi ultimi, che soltanto cinque anni fa detenevano il 65 per cento delle azioni di mercato e il 25 per cento dei titoli di Stato turchi, oggi sono scesi rispettivamente al 29 e all’un per cento. Anche il deficit annuale ha raggiunto il suo massimo livello con 10 miliardi di indebitamento netto registrato a gennaio scorso, mentre l’inflazione su base annua, confrontata con il 2022, ha raggiunto quota 86 per cento, per attestarsi al 40 per cento dall’inizio dell’anno in corso, facendo scendere sotto la soglia di povertà milioni di turchi. Il recente fenomeno del rallentamento dell’inflazione in Turchia è dovuto al massiccio intervento di sostegno della Banca centrale di Ankara. Esborso quest’ultimo che non è ulteriormente sostenibile nel medio periodo, a pena di default, attestandosi attualmente a un miliardo di dollari al giorno, per la maggior parte frutto di prestiti, che a conti fatti rappresenta un saldo negativo di (-)70 miliardi in valuta estera. Dai dati citati si evince che sarà inevitabile un’altra tornata di svalutazione della lira turca sul dollaro e una nuova impennata dell’inflazione.

Per spostare sul piano dell’immagine delle performance di regime i ben scarsi risultati raggiunti sul piano economico, Erdoğan cerca di vendere alla propria opinione pubblica il successo sia della realizzazione della prima centrale nucleare, sia dell’inaugurazione della trivellazione del più grande giacimento di gas nel Mar Nero. Performance alle quali si affiancano la costruzione di un’auto interamente elettrica prodotta in Turchia, e il prossimo varo della prima portaerei in dotazione alla Marina turca. Il messaggio ai suoi elettori è chiaro: “Votate me, perché io sono la vostra migliore garanzia di progresso e il solo a poter fare della Turchia una potenza mondiale in grado di sfidare l’Occidente”. E che questo linguaggio di grandeur alla Charles de Gaulle funzioni lo dimostra il fatto che, a oggi, Erdoğan è accreditato del 40 per cento dei consensi elettorali. Del resto, la classe media turca deve molto al suo leader per il netto miglioramento della propria condizione economica e, con ogni probabilità, è destinata a restargli fedele. La forza del presidente uscente sta proprio nelle classi medie che vivono in provincia, lontano dalle grandi aree metropolitane da cui si sentono escluse, e contano su di lui per conservare certi costumi religiosi tradizionali, come il diritto da parte delle studentesse e impiegate di indossare il velo islamico nei licei e negli uffici pubblici. Povero Kemal Atatürk, verrebbe da dire!

Aggiornato il 09 maggio 2023 alle ore 09:55