Requiem per l’Islam politico?

Se cade Erdoğan

Che cosa accadrebbe se il 14 maggio Recep Tayyip Erdoğan venisse sconfitto alle elezioni presidenziali turche? Quasi certamente la conseguenza diretta sarebbe la fine in Medio Oriente dell’Islamismo politico, ispirato al movimento della Fratellanza Musulmana. Dopo la fioritura delle illusorie e brevi Primavere arabe (in cui l’organizzazione politica dei “Fratelli” giocò un po’ ovunque un ruolo strategico) il riflusso iniziò nel giugno 2013 in Egitto, con il colpo militare che estromise dal potere Mohamed Morsi, il più alto esponente dei Fratelli Musulmani ad assumere la presidenza, deceduto in prigione sei anni dopo. Morsi venne eletto nel 2012, un anno dopo l’affermazione alle elezioni legislative del 2011 del Partito Libertà e Giustizia, con cui la “Fratellanza” si era affermata come Partito di maggioranza relativa nel Parlamento egiziano, ottenendo il 36,4 per cento dei consensi. Analogamente, è stato di recente incarcerato in Tunisia Rached Gannouchi leader del Partito islamista Ennhada, che alle elezioni legislative del 2011 aveva ottenuto ben il 41,7 percento dei voti, sceso al 19,6 percento nelle ultime elezioni del 2019. La travolgente ascesa dei Fratelli in occasione delle “Primavere arabe” aveva già scatenato a partire dal 2011 la reazione brutale da parte delle monarchie e delle dittature, oggetto di forti proteste e contestazioni popolari come mai prima era accaduto in passato.

Ma proprio le Primavere, oltre a travolgere governi locali, presero in contropiede l’organizzazione islamista della Fratellanza, che seppe tuttavia approfittare dell’inattesa apertura dei giochi politici grazie alla propria organizzazione territoriale. Anche se occorre dire che le proteste popolari non erano all’epoca guidate dai leader islamici, quanto dalla mobilitazione spontanea che nasceva dagli appelli sui social media per il rispetto della dignità dei cittadini. L’ultimo colpo di maglio alla presa del fondamentalismo islamico sulle società mediorientali è stato inferto dal rifiuto a indossare il velo da parte delle donne in Iran. Se gli ayatollah resistono al potere reprimendo duramente le proteste giovanili, senza concedere nulla alla rivoluzione dei costumi, è in ragione della concentrazione del potere politico-militare ed economico (soprattutto) nelle mani delle milizie dei “Guardiani della Rivoluzione Islamica”, noti come pasdaran. La loro organizzazione paramilitare si ispira a una gestione ideologizzata dell’economia (realizzata attraverso situazioni di monopolio afferenti a entità statali o parastatali di proprietà dei miliziani), che preclude il pieno sviluppo economico del Paese, malgrado le sue immense risorse energetiche, oggi per di più sottoposte a embargo internazionale a seguito delle sanzioni sul nucleare iraniano.

Un’altra meccanica in corso di svolgimento del depotenziamento dell’Islam politico riguarda un Paese-chiave (il secondo più grande dopo l’Iran) della regione mediorientale, come l’Arabia Saudita che, nel 1979, ebbe a subire il grave affronto della presa per brevissimo tempo della Mecca da parte di un commando millenarista islamico. Alla guida di questo imponente meccanismo del cambiamento c’è il Principe ereditario Mohammed Bin Salman (o Mbs, come confidenzialmente viene individuato dalla stampa angloamericana, ormai silente sull’assassinio su commissione del giornalista Jamal Khashoggi), che ha avuto addirittura l’ardire di ridimensionare la famigerata “Polizia dei costumi” (o “Mouttawa”) costretta ad assistere in silenzio alla sua “rivoluzionaria” riforma reale. Ed è così che, senza clamori di rilievo, Mbs ha preso decisamente le distanze dal waabismo (sorta di movimento fondamentalista musulmano) con l’instaurazione della Festa Nazionale della Fondazione dello Stato, da celebrare ogni anno il giorno 22 febbraio, a partire dal 2022. Una scelta quest’ultima che sottolinea una presa di distanza dall’alleanza-identificazione fra regno e dottrina wahhabita, che ha contrassegnato il regno saudita negli ultimi tre secoli. Fino al 2021, infatti, la data di nascita dello Stato saudita era rigorosamente fissata al 1744, l’anno il cui l’emiro Muhammad bin Saud (noto anche con il titolo di imam e capostipite dell’attuale dinastia) stabilì un’alleanza con Muhammad ibn Abd al-Wahhab, il riformatore islamico considerato dai sufi colpevole di aver travisato i valori più autentici dell’Islam. Il patto del 1744 fra l’emiro e il riformatore poneva (per la prima volta nella storia islamica) la separazione tra le prerogative politiche degli emiri e quelle religiose dei chierici (ulema).

Questo patto di ferro, tuttavia, ha comportato una sorta di identificazione del regno con una certa visione particolarmente rigida dell’Islam, che non coincide affatto con quella di moltissimi musulmani, anche sunniti, che vivono fuori dai confini del regno saudita. A partire dalla riforma voluta da Mbs, la messa al passo delle figure più influenti dell’islamismo politico saudita contemporaneo è stata più che radicale. Come testimonia la condanna a morte, tra gli altri, del leader del movimento Sahwa, una sorta di ibridazione del waabismo con l’ideologia della Fratellanza veicolata dai quadri dell’organizzazione, costretti all’esilio ai tempi di Nasser. In questa crociata anti-Fratellanza, Mbs si trova come alleato di fatto gli Emirati Arabi guidati dell’Emiro Mohammed Ben Zayed, visceralmente ostile ai Fratelli Musulmani. Assieme, Riad e Abu Dhabi tendono a replicare il “modello di sviluppo singaporiano” decisamente a-politico, fondato sul binomio dell’autoritarismo e del consumismo. Manca solo la Turchia a completare il Tridente anti-Fratellanza, per mettere definitivamente sotto scacco l’Islam politico in Medio Oriente. L’ultimo baluardo, sul fronte sciita, rimane la Repubblica islamica iraniana, del tutto incapace, oltre all’uso della forza, di dare una risposta moderna allo slogan popolare “donna, vita, libertà”.

Recep Tayyip Erdoğan, del resto, ha abbondantemente tradito le promesse delle origini del suo primo decennio al potere, quando si presentava come un modello di liberazione e di apertura democratica, per poi virare circa dieci anni fa verso un rigido conservatorismo, condito da un inquietante nazionalismo neo-ottomano aggressivo, sorretto da un’ossessione securitaria alla Vladimir Putin. Questi capovolgimenti in serie hanno causato una crisi profonda in seno alla Fratellanza, resa di recente orfana del suo leader a interim, scomparso a dicembre nell’indifferenza più generale. Come al solito, quando un monolite si frantuma prevalgono le fazioni, che sono poi due nel caso turco. La prima, denominata il “fronte di Londra”, fa capo agli espatriati che rappresentano i Paesi dove la Fratellanza è politicamente interdetta, mentre il secondo è costituito all’interno dal “fronte di Istanbul”. Entrambi i “fronti” hanno scelto un proprio leader a capo del Movimento, perdendo così di fatto l’originale connotazione unitaria. Vedremo come andrà a finire quando ci sarà la vera conta elettorale il 14 maggio prossimo.

Aggiornato il 03 maggio 2023 alle ore 09:12