Sudan: il rischio di contagio geopolitico

Il Sudan è il terzo produttore mondiale d’oro, ma è anche uno dei Paesi più poveri del mondo. Questa incoerenza, fisiologica in molteplici contesti geografici e politici, ha permesso oscuri e colossali affari.

Il macabro gioco geo-affaristico, che è stato imbastito intorno a questa nazione, ora è impantanato in tentativi di pacificazione che trovano ripidi ostacoli, ma soprattutto che ledono gli interessi dei “falchi” che volteggiano sopra la “preda ferita”.

Adesso l’onda d’urto del conflitto tra i due generali, Abdel Fattah Al-Bourhane e l’ormai “ribelle” Mohammed Hamdan Daglo, meglio conosciuto come “Hemetti”, che sta devastando in Sudan, ha sfondato i confini del Paese. Ma le nazioni del Golfo e l’Egitto, che adesso chiedono una de-escalation delle tensioni, hanno finora alimentato le brame dei due generali. Le potenze della regione centro-nord-orientale dell’Africa stanno moltiplicando i loro impegni per negoziare almeno una tregua dei combattimenti. Tuttavia, questo atteggiamento rende evidente il gioco pericoloso che queste nazioni hanno fatto dopo la caduta del dittatore genocida Omar Al-Bashir, a seguito del colpo di Stato del 2019. Infatti, dopo il cambiamento di regime, nel quale l’influenza straniera è stata determinante, i potenti Stati del Golfo e il Cairo hanno appoggiato distintamente i due generali a scapito delle aspirazioni “simil-democratiche” della popolazione, che contava sulla permanenza del governo di “civili”. Infatti, durante quel periodo a cavallo dei due golpe definito di “transazione democratica”, 2019-2021 guidato dal “civile” Abdallah Hamdok, i militari sono stati gli interlocutori preferiti dell’Egitto e dei Paesi del Golfo. Così oggi, agli occhi dei sudanesi le richieste di rilassamento delle tensioni da parte di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau) sono ritenute ipocrite; infatti, è percezione diffusa che il popolo del Sudan consideri questi tre Paesi come attori del problema e non della soluzione.

Nel 2019, dopo mesi di rivolte popolari, gli emiratini e i sauditi hanno sostenuto i nuovi golpisti del Sudan con oltre tre 3 miliardi di dollari, favorendo più i militari che il presidente civile Hamdok, che faticosamente si destreggiava tra le pericolose tortuosità della “politica” sudanese, fino a deragliare con il colpo di Stato dell’ottobre 2021. Quindi, Riyadh e Abu Dhabi, dopo il rovesciamento del regime di Al-Bashir, hanno visto l’occasione per riacquistare gli spazi precedentemente persi in Sudan e che erano stati occupati da Turchia e Qatar, tradizionali rivali nella regione. Le due monarchie del Golfo hanno investito in Sudan, per il loro fabbisogno alimentare, decine di miliardi di dollari su grandi estensioni di terreno fertile, dove sono stati prodotti enormi quantità di generi alimentari, sia agricoli che zootecnici. Non dimenticando il ruolo incisivo e trasversale, ma tendenzialmente “coperto”, della Russia. Ricordo, inoltre, che Ankara e Doha sono forti sostenitori dei regimi dell’area favorevoli ai Fratelli Musulmani.

Tuttavia, la tragedia umanitaria che porta al naturale esodo dei sudanesi verso i confini preoccupa e imbarazza le nazioni limitrofe. Così, le dinamiche migratorie investono a est il Mar Rosso, a sud l’Etiopia, e Sud Sudan, a nord l’Egitto attraversando il cruciale confine occidentale con il Ciad. Al momento, il rischio più grosso lo corre il Ciad, e il Sud del Sudan, Stati che stanno osservando con maggiore apprensione i “tumulti sudanesi”. La diplomazia del Ciad ha operato, ufficialmente e non, anche dopo la deposizione del dittatore Omar Al-Bashir, durante la “transazione democratica” (2019-2021). Mahamat Idriss Déby, l’ex presidente del Ciad, ha sempre fatto sentire la sua presenza in modo costruttivo, ma anche vigile. Ricordo che il Ciad è sicuramente il più consapevole delle potenzialità destabilizzatrici del Sudan, e che Idriss Déby, al potere nella Repubblica del Ciad dal 1990 al 2021 e padre dell’attuale Capo dello Stato, Mahamat ibn Idriss Déby Itno, era salito al Governo dopo un’aggressione armata partita dal Sudan. Anche le due incursioni con obiettivi eversivi – 2006 e 2008 – che minacciarono la sua presidenza, avevano matrice sudanese.

Camminando su un precario margine di negoziati, vista la cronica crisi di potere tra Al-Bourhane e Hemetti e con l’obiettivo di mostrare una mediazione neutrale, Mahamat ibn Idriss Déby Itno già a gennaio aveva ricevuto il generale Al-Bourhane e Hemetti in due incontri separati. A oggi, nonostante le pressioni internazionali tese a sospendere gli scontri, nessuna tregua è durata più del tempo necessario a esprimere la volontà di disegnare un progetto di “cessate il fuoco”.

È una difficile mediazione quella dei negoziatori del Ciad, che strategicamente non si schierano ufficialmente con nessuno dei due generali; tuttavia, un portavoce, diplomaticamente, ha dichiarato che “siamo dalla parte dell’istituzione”, non palesando sbilanciamenti netti verso Al-Bourhane. Una voce della presidenza del Ciad ha precisato che nel caso in cui il potere fosse preso da forze irregolari, che notoriamente sono composte da un cospicuo numero di arabi del confine ciadiano-sudanese, ciò “costituirebbe una minaccia per la nostra stabilità”. Quindi, i rischi per il Ciad sono le forze irregolari del Sudan, in quanto Hemetti ha assorbito, tra le sue Forze di supporto rapido (Fsr), le spietate milizie Janjawid, che hanno sparso terrore nel Darfur. Molti elementi delle Fsr ombreggiano tra i “corridoi” del potere ciadiano, estendendo i propri tentacoli nel tessuto socio-economico del Ciad. Inoltre, il generale Bichara Issa Djadallah, capo di Stato maggiore del Ciad e uomo ovviamente vicino a Déby, considerato anche poco affidabile, è cugino diretto di Hemetti il quale ha, contrariamente ad Al-Bourhane, numerosi legami parentali in Ciad.

Inoltre, va considerato che l’interruzione in Sudan della distribuzione di cibo da parte del Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite rischia di accelerare l’emigrazione, dirottando massicci esodi anche verso il Sud Sudan, Stato non all’altezza d’assorbire tale “umanità”. E che si sostiene per quasi l’ottanta per cento con gli aiuti umanitari internazionali.

In questo quadro, se il conflitto in Sudan dovesse persistere il primo a essere danneggiato sarebbe il Sud Sudan. Infatti, i due Stati si dividono i ricavi del petrolio estratto in Sud Sudan, che viene condotto oltreconfine, tramite pipeline, a Port Sudan sul Mar Rosso. Un eventuale blocco del trasporto del petrolio, attuato per motivi di sicurezza, priverebbe il Sud Sudan di quasi tutte le sue “entrate”. Il “virus” della instabilità esploso in Sudan potrebbe risvegliare molte precarietà governative finora assopite da enormi quantità di sedativi a base di miliardi di dollari; evidentemente, non sufficienti a placare la voracità di quei governi che attingono ingordi al “desco sudanese”.

Aggiornato il 02 maggio 2023 alle ore 10:23