Sudan: quanto è alta la posta in gioco?

Dal 15 aprile il Sudan è precipitato nuovamente nel caos. All’origine della crisi – almeno così sembra – ci sarebbe la storica rivalità tra i due “uomini forti” dello Stato africano: il capo del Governo, Abdel Fattah al-Burhan e il suo vice, il generale Mohamed Hamdan Dagalo. I due, dopo aver cooperato per la destituzione di Omar al-Bashir, da anni si spartivano il potere in quella che potremmo definire una sorta di “tregua armata”.

Al principio, le violenze e gli scontri tra l’esercito regolare – rimasto fedele al presidente – e i gruppi paramilitari guidati da Dagalo hanno coinvolto la sola capitale Khartoum, per poi estendersi anche ad altri centri. Le incursioni, con tanto di sparatorie, mobilitazioni di blindati e raid aerei, non hanno risparmiato neppure gli obiettivi civili. I civili che vi riescono fuggono dai luoghi di combattimento.

Oltre alla rivalità tra i due leader del Paese, all’origine del conflitto ci sarebbe anche l’opposizione dei paramilitari al progetto di integrazione nell’esercito regolare portato avanti da al-Burhan e dagli alti ufficiali. Tuttavia, le ragioni della guerra sono molto più profonde e hanno a che fare sia con la situazione interna al Paese, che con un complesso quadro geopolitico che si sta giocando in Sudan e in tutta l’Africa. Anzitutto, l’insurrezione dei miliziani sarebbe dovuta al tentativo di riportare in auge il movimento islamista – dalla cui contaminazione l’esercito stava cercando di epurarsi – e di sventare la transizione democratica promessa da al-Burhan, che avrebbe implicato il ritorno dei militari nelle caserme per lasciare spazio a un governo di civili.

In secondo luogo, un ruolo determinante nello scoppio del conflitto l’avrebbero avuto i russi: nello specifico, l’ormai famigerato Battaglione Wagner, attivo da anni in Sudan e sostenitore di Dagalo, che dal canto suo non ha mai nascosto la sua vicinanza a Mosca. Secondo alcune indiscrezioni trapelate dal Pentagono e riportate dal Washington Post, il comandante della milizia ultra-nazionalista russa, Evgenij Prighozin, starebbe cercando di creare una vera e propria confederazione di Stati africani in funzione anti-occidentale. Alla base di questo tentativo, vi sarebbe non solo la volontà di sfruttare le immense ricchezze energetiche e minerarie di cui il Continente Nero dispone, ma anche il tentativo di accrescere l’autoritarismo dei governi: il che aggraverebbe le già complicate condizioni socio-economiche e genererebbe ondate migratorie utili a destabilizzare e a mandare in crisi gli Stati europei.

Non solo: sulla falsariga dei cinesi, ciò andrebbe a consolidare la presenza russa in un Continente – quello africano – di importanza cruciale per la stabilità globale, anzitutto dal punto di vista demografico. Finora – rivela il Washington Post – il Battaglione Wagner avrebbe “seminato” in almeno tredici nazioni africane, tra cui il Sudan. Non a caso, a proposito dello scontro in atto, l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci ha già lanciato l’allarme in un’intervista a Il Tempo, in cui ha messo in luce i rischi per l’Italia, per la quale la guerra in Sudan potrebbe acuire la crisi migratoria che il nostro Paese già fatica ad affrontare.

Va detto che uno dei più gravi errori strategici dell’Occidente è stato, probabilmente, proprio quello di sottovalutare il potenziale dell’Africa o, per meglio dire, quello che l’Africa avrebbe potuto rappresentare nel mondo globalizzato e nelle sfide geopolitiche del futuro. Un po’ eravamo impegnati a fustigarci in quanto “bianchi, sfruttatori e colonialisti” e un po’ davamo per scontato che l’Africa non avrebbe mai costituito un serio problema per nessuno. Così l’abbiamo lasciata in balia di se stessa, abbiamo smesso di preoccuparci di quello che succedeva nel Continente Nero e abbiamo lasciato che altri colmassero il vuoto “marchiato” dagli inglesi, dai francesi, dagli italiani e dagli americani. Cinesi e russi non si sono lasciati sfuggire l’occasione: hanno investito in infrastrutture e promosso lo sviluppo, hanno armato milizie ed eserciti, fomentato rivoluzioni e golpe, coi quali hanno rimosso i governi non amici e hanno comprato i debiti di quegli Stati. In questo modo ne sono diventati, di fatto, i padroni.

Cosa fare, dunque? Gli Stati occidentali devono tornare a giocare un ruolo determinante in Africa. Il che significa unire i propositi di investimento e sviluppo nel Continente Nero, nell’ambito della cooperazione internazionale, alla stabilizzazione e ad una discreta presenza militare, volta a sostenere i governi amici delle democrazie occidentali e a sventare le trame russo-cinesi che si fanno sempre più fitte. L’ormai famigerato Piano Mattei per l’Africa, di cui la premier Giorgia Meloni ha parlato così tante volte e il cui scopo sarebbe quello di aiutare gli africani a casa loro, rendendo effettivo il diritto di non lasciare la propria terra (oltre che quello degli italiani e degli europei alla sicurezza dei propri confini e alla preservazione della loro identità), non può essere inteso solo in senso economico: se prima non si stabilizza l’Africa e non si aiutano gli africani dal punto di vista politico e culturale, ogni altro aiuto è destinato a risolversi in un fallimento o, peggio ancora, a diventare un sostegno alle attività dei regimi o dei gruppi paramilitari vicini alle potenze nemiche. Su questo dato, sarebbe doverosa una riflessione delle cancellerie occidentali. Sul Sudan si sono tutti concentrati – giustamente, per carità – sull’evacuazione dei diplomatici e dei cittadini presenti nel Paese: ma nessun capo di Governo o ministro degli Esteri – se escludiamo il debole tentativo di mediazione di americani e sauditi – ha ritenuto opportuno spendere una parola per proporre nelle sedi opportune una missione diplomatica, umanitaria e militare volta a riportare l’ordine e a evitare il peggio.

Aggiornato il 28 aprile 2023 alle ore 10:36