Africa in fiamme: la guerra dei generali

Che cosa fa l’Occidente in Sudan? Fugge, come sempre. Prima lo ha fatto con Saigon, poi con Mogadiscio, più di recente con Kabul e ora con Khartoum. Oggi, più di ieri, l’Africa brucia! Ricordate come all’inizio degli anni 90 fallì miseramente l’intervento di pacificazione dell’Onu in Somalia con la missione “Restore Hope”, o “Unitaf”, in cui si trovarono impegnati anche militari italiani? Allora, come oggi in Sudan, si trattava di mettere fine ai disastri umanitari provocati dalla solita, feroce e spietata guerra tra bande dei warlord e delle loro milizie contrapposte, finita in tragedia per l’America e i suoi alleati (tra cui noi). La decisione del ritiro definitivo degli Usa avvenne a seguito della Battaglia di Mogadiscio (rievocata nel film “Black Hawk Down”) in cui il 4 ottobre del 1993 persero la vita 18 militari americani e centinaia di somali. In quello scontro vennero abbattuti due elicotteri statunitensi e furono diffuse le immagini scioccanti dei miliziani del generale ribelle Aidid, che trascinavano per le strade di Mogadiscio i cadaveri degli operatori speciali e degli equipaggi statunitensi. Che fine avrebbero fatto quei miliziani somali, feroci e primitivi, se ci fosse stata la Wagner al posto dei marines americani? Ecco: la fuga dal Sudan, con la solita coppia di generalissimi warlord che si massacrano tra di loro e fanno stragi della popolazione civile inerme, avviene proprio nel ricordo del disastro di “Black Hawk Down” e dell’incapacità dell’Occidente di usare la forza per mettere fine alle peggiori dittature del mondo.

Ma, queste ultime, da più di settant’anni a questa parte, soprattutto in continenti ricchissimi di risorse naturali, come Africa e America Latina, sono un puro “prodotto interno”: un’esclusività tribale, irrecuperabile e insopprimibile, che è la vera responsabile di disastri umanitari che li riguardano, come migrazioni epocali, carestie, persecuzioni etniche, criminalità dilagante. Tanto più che l’Occidente è da tempo incapace di difendere con l’uso della forza il diritto dei più deboli. Che senso ha parlare di “Libertà” in questo isolotto del mondo di appena mezzo miliardo di anime, quando almeno sette miliardi di altri esseri umani ne sono privi? E questo non perché gliela abbiamo tolta noi quella libertà, ma in ragione dell’azione e delle condotte dei governanti che essi stessi si sono scelti, per amore o per forza. Gente che ha quindi la loro stessa nazionalità, lingua e tradizione. Ma qui, occorre fare la tara alla tesi di Francis Fukuyama della superiorità delle liberal democrazie, rispetto a tutti gli altri sistemi di governo del resto del mondo. In realtà, Noi Global West abbiamo clamorosamente fallito la nostra Crociata laica secolare, avendo erroneamente creduto che il mercantilismo pacifico della Globalizzazione avrebbe allineato e fatto confluire nel nostro modello liberaldemocratico tutto il resto del mondo che interagiva commercialmente con noi, Cina e Russia, in particolare.

Cullandoci in questa illusione, ci siamo dimenticati l’importantissima lezione degli Imperi e delle “Iper-leadership” che essi forgiano nei secoli o addirittura nei millenni, come nel caso della Cina. Oggi Mosca e Pechino rivendicano i domini di Pietro il Grande e quelli di Gengis Khan, e lo fanno come sempre: individuando il loro nemico comune nell’Occidente. Con una sola, ma fondamentale differenza nel metodo da parte dei nostri due rivali: da un lato, Vladimir Putin riscopre la forza delle armi; dall’altro, Xi Jinping esalta l’arma confuciana del “Fare” meritocratico. Come dimostra, da un lato, la vertiginosa crescita economica trentennale cinese sul piano interno, mentre per la penetrazione all’estero si utilizza la leva finanziaria di trilioni di dollari della Road and Belt Initiative (R&Bi), per costruire mega-infrastrutture nel resto del mondo dei Paesi in via di sviluppo. La divisione dei compiti tra Cina e Russia è chiarissima. Da un lato, Putin utilizza e finanzia il suo sterminato esercito di mercenari, che si vanno mischiando e facendo rissa, senza regole prefissate di ingaggio, né rispetto dei diritti umani, nei mini-conflitti violenti sparsi nelle più diverse parti del mondo e in aree strategiche (come in Africa, in particolare, terra di diamanti e di oro), facendo vincere chi dicono loro. Purché poi il vincitore (vedi Siria e Libia, con i giacimenti petroliferi della Cirenaica; o il Sudan, con lo sfruttamento delle miniere d’oro) paghi il conto di quella vittoria con l’occupazione russa di infrastrutture strategiche, come porti, giacimenti minerari e petroliferi, nonché concedendo ai russi stessi il controllo di vie strategiche di acqua e di terra.

Lo stesso fa la Cina, ma in modo assolutamente non violento e senza kalashnikov in spalla. I Paesi beneficiari che non riescono a restituire i prestiti loro concessi con i capitali della R&Bi sono costretti a riconoscere alla Cina condizioni privilegiate per lo sfruttamento di risorse naturali, e/o l’uso di siti geograficamente strategici per gli interessi di Pechino. Nella ridotta visione prospettica da parte di Fukuyama c’è proprio la mancata valutazione di ciò che si potrebbe definire “L’Orizzonte di Potenza”. Un esempio servirà meglio di ogni altra cosa a chiarire il concetto, in risposta al seguente quesito fondamentale: “Perché la Cina, che appena trenta anni fa partiva da condizioni di sottosviluppo dello stesso tenore dell’Africa e dell’America Latina, da sempre infinitamente più ricche di lei per risorse naturali, è arrivata a sfidare il primo posto nel mondo per livello di benessere agli Usa e al Global West?”. Risposta ovvia: grazie alla Iper-leadership del Partito (unico) Comunista cinese. Pertanto, se Europa, America Latina e Africa non sapranno fare altrettanto, sarà la forza militare ed economica di Russia e Cina a vincere la sfida centenaria con il Global West.

La nostra resistenza passa per la rinuncia al multilateralismo e al multiculturalismo, tornando a essere quello che eravamo: “Imperi” (politicamente) europei, pronti all’uso della forza se necessario. Possibilmente uno solo o, alla peggio, due: il primo qui all’Ovest e l’altro all’Est Europa, purché contrastiamo uniti i nostri avversari dichiarati.

Aggiornato il 28 aprile 2023 alle ore 10:50