1991: le radici del nuovo conflitto con l’Oriente

Di solito, quando due persone scommettono, solo uno dei due vince. Nel caso di Boris Eltsin, entrambi gli scommettitori, la Russia libera e gli Stati Uniti, hanno perso. Vladimir Putin è stato il prodotto esponenziale di quella catastrofe. Scrivo questa nota dopo aver visto il film “L’ombra di Stalin” (2019), profetica ricostruzione di una vicenda reale che già nel 1933 gettò luce sul genocidio conosciuto col nome di Holodomor.

Di recente mi è capitato sott’occhio un articolo di Enzo Biagi sul settimanale Panorama del settembre 1991. Il titolo era “L’era di Eltsin”. Ogni tanto rileggo le vecchie riviste che trovo nei mercatini: sono molto utili. Per esempio, su quel numero di Panorama mi ha colpito il fatto che le prime trenta pagine siano dedicate alla cultura. La foliazione de Il Venerdì di Repubblica di questa settimana ha – come sempre – le prime 47 pagine dedicate all’indottrinamento del lettore, quasi con un immutato Agit-prop, quello che nell’Unione Sovietica era il “Dipartimento per l’agitazione e la propaganda” del Comitato centrale e dei Comitati territoriali del Partito Comunista, poi rinominato “Dipartimento ideologico”, definizione non meno inquietante della prima.

Eccessivo? Macché, io vedo quante persone oggi caldeggiano Stalin e giustificano “Vlad” Putin. Parlo di gente comune tra cui ci sarà – chissà – qualche parente di parlamentari del Partito Democratico. Sono molti coloro che mettono il carro dell’Ideologia davanti ai buoi della propria mente? La scuola dell’Agit-Prop serviva a questo, ed ancora ben funzionante, in Italia. Al confronto la stampa di destra è puro folclore.

Del resto, Enzo Biagi, che era vaccinato contro le maschere della “morte rossa”, scrive un incipit che più appropriato non si può: “È impossibile capire la Russia, bisogna credervi”. È una citazione di Lev Tolstoj molto attuale: devi passare attraverso il tritacarne (quello ideologico o – se lo rifiuti – quello bellico) per “credere” nella Russia. Dopodiché, Biagi si dedica a smontare i media e gli analisti che non avevano previsto il ricatto degli sceicchi del petrolio (e il gas di Putin, oggi) né la caduta dei Soviet e del Muro di Berlino: “Anche Mikhail Gorbaciov ha subito la prova e l’usura della sconfitta e della prigionia, con in più l’ombra del sospetto. Vittima, o magari involontario complice”. Involontario complice forse è una definizione esatta.

Arriva Boris Eltsin, e nulla sarà più come prima, aggiunge Biagi. Vero, ma nel caso della Russia niente è più azzeccato di un parallelo con la Sicilia dei baroni de Il Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Infatti, è andata così… Altro che “i proletari non hanno che da perdere le proprie catene”! Tra le masse popolari e il nuovo zarismo c’è sempre lo stesso patto: tu dacci il pane e il companatico, e per farlo vampirizza le province della Siberia o del Caucaso o l’Ucraina. Invece del libero commercio, si può fare soltanto una cosa, come Adolf Hitler: invadere territori esterni e invadere le menti all’interno. Enzo Biagi nel 1991 è enchanté da Eltsin: lo paragona con un gigante risalito dai sottoscala di Hollywood, come Ronald Reagan.

Biagi, però, è perfetto quando passa a descrivere le cellule del terrore rosso. Per esempio, Vjačeslav Michajlovič Molotov. Biagi lo incontra quando l’inventore della bottiglia incendiaria era un pensionato: “Leggeva su una panchina le notizie della Pravda o del Kommunist… Churchill lo giudicava “un perfetto robot”, il compagno Voroshilov lo chiamava “culo di sasso”. Non battè ciglio neppure quando arrestarono sua moglie Polina perché era ebrea: al momento di votare si astenne.” Quanto può essere atroce e miserabile essere servi di chi si dichiara tuo servo.

Nikita Krusciov, quando cadde, non finì in Siberia, ma venne esiliato nella sua dacia. Aleksandr Zinoviev, finito in esilio e critico feroce della dittatura sovietica, lo accusava di “avere messo in piedi la Katastrojka, una catastrofe economica, politica, morale”.  Nel 1991 la situazione è anche peggiore: Mikhail Gorbaciov non ha risolto il problema delle nazionalità sottomesse che chiedono indipendenza da Mosca, a partire dalla Georgia. Scriveva Enzo Biagi: “È giusto pensare alla democrazia, con l’opposizione, i partiti, il mercato: ma bisogna produrre prima di vendere”.

CHI ERA BORIS ELTSIN?

Nato in piena era staliniana, cresce in una famiglia che ha conosciuto la persecuzione dell’hitlerino rosso: il nonno, un Kulako che difese la sua terra dalla collettivizzazione forzata, morì in un lager. Il padre, accusato di attività anti-sovietica, finisce anche lui in un lager. Il giovane Boris cresce tra gli stenti. Quando si laurea, è pronto per la conversione al comunismo. Diventa un politico di piccolo cabotaggio, ma comunque apprezzato dal Partito. In era gorbacioviana diventa presidente della Repubblica russa, ed è in questa veste che, nel corso del golpe della ex nomenklatura comunista (agosto 1991), corre in soccorso di Gorbaciov. La mossa spiazza e affonda il partito comunista e lo stesso Mikhail Gorbaciov: il Governo passa a Eltsin, convertitosi al libero mercato.

La sua vittoria è supportata dagli Stati Uniti, così come da quelle cellule di borghesia urbana russa e anche da un popolo che era quasi ridotto alla fame. Chi in Russia chiedeva un’economia di mercato, sperava in un coniglio tratto fuori dal cilindro dello zio Sam, più che da quello di Eltsin. Eltsin era quindi un “utile idiota”.

Le leadership di Germania e Francia si erano trasferite armi e bagagli a Mosca e San Pietroburgo. Vladimir Putin cominciava a studiare da leader come braccio destro del sindaco di San Pietroburgo, mentre invece si arricchiva facendo affari di stampo mafioso col denaro pubblico. Grazie alle sue frequentazioni tedesche, quando dirigeva una residentura Kgb, Putin apriva le porte a commercio e industrie della Germania.

Intanto, passava a Mosca, diventando capo del servizio di sicurezza Fsb (ex Kgb). Boris Eltsin, nel frattempo, faceva l’Eliogabalo alcolico e dava tutto il potere ai siloviki, gli oligarchi che studiavano da yuppie, solo che invece di Wall Street avevano intorno le macerie dell’Unione Sovietica, con zero industrie e zero mercato azionario.

La chiave del breve interregno eltsiniano è l’anarchia al potere. Quando lasciò il Cremlino, la sua popolarità era al 2 per cento. Putin se lo mangiò in un boccone: lui aveva già preparato la transizione sul modello di “Ejercito, pueblo y caudillo” dei tiranni sudamericani. E così per prima cosa rase al suolo Grozny, capitale della Cecenia, ottenendo l’appoggio dell’esercito. Poi rafforzò il suo potere, cominciando a chiudere i rubinetti di quella democrazia basata sul capitalismo ottocentesco che fu la chiave del potere di Eltsin.

Ma come riuscì a convincere il pueblo? Grazie a un concorso di errori. Da un lato, la boccalonaggine occidentale: tedeschi, italiani (con Eni), francesi si ingegnarono al massimo per rendere funzionali e per scoprire nuovi giacimenti di gas, l’oro blu su cui i tedeschi puntavano per fondare un reich (democratico) di mille anni, mentre i francesi ci provavano a destra e a manca e gli americani puntavano solo a fare denaro in fretta. Il risultato fu che l’Occidente regalò alla Russia un futuro di latte e miele. Invece di convertirla al libero commercio e all’industrializzazione, cosa che Putin – esattamente come il panarabismo jihadista – aborriva e temeva come il diavolo teme Gesù Cristo, cosa combinò l’Occidente? Libero commercio e industrializzazione sono la rovina delle dittature, perché permettono la crescita di una classe dirigente laica, che esige la democrazia e gli scambi anche culturali e politici col resto del mondo.

Gli oligarchi di Putin trovarono la ricchezza per l’ennesima volta senza passare dalla Rivoluzione industriale e dallo Stato liberale: fu come la scoperta di un motore ad aria fritta, pronta e servita su un piatto d’oro dall’Occidente. In pochi anni, gli occidentali avevano affiancato e formato gli ingegneri e geologi russi, trovando nuove riserve immense di gas. I nuovi imperatori di Gazprom avevano ottenuto le tecnologie per gestire i giacimenti e i gasdotti. Putin cominciò a nazionalizzare tutto. L’Europa si accontentò di comprare il gas russo senza pensare alle possibili conseguenze. Gli americani si ritirarono.

Putin aveva così riportato la Russia a un grado di ricchezza tale da fidelizzare il popolo. Il passo seguente fu la creazione di una “Triplice alleanza” con la Cina e l’Iran, non dichiarata formalmente. I partner cominciarono a dedicarsi all’invasione soft degli stati deboli (non solo i Brics, ma l’intera Africa, la Grecia, il Sudamerica…) a partire dalle madrasse iraniane, che facevano a gara con quelle sunnite, per continuare con gli sciti di Hezbollah saliti al governo del Venezuela. Anche Putin cominciò a occupare (col soft power, prima di offrire sicurezza con il Gruppo Wagner) nazioni ricche di gas e petrolio. Con la Cina ha trovato una sponda fertile per le Terre Rare, che sono la deutero-economia di Pechino, insieme con la produzione di merci “basiche”.

Ecco uno dei motivi che hanno scatenato l’ormai lunga guerra di posizione in Ucraina. Tutto nasce dagli imperdonabili errori commessi dall’Occidente e dalla Russia tra il 1989 e il 1991.

Aggiornato il 19 aprile 2023 alle ore 09:47