Cina, Usa e Tucidide: la trappola

Il mondo sta cadendo in trappola? Se parlate di quella di Tucidide, ebbene la risposta è affermativa. Perché, oggi, Usa e Cina presentano situazioni identiche nei rapporti tra di loro come un giorno accadde ad Atene e Sparta, facendole precipitare nella Guerra del Peloponneso di cui Tucidide ne fu il maestoso storiografo. Il suo famoso paradosso afferma che “quando una potenza emergente tenta di spodestare la potenza egemonica, il confronto sfocia in un conflitto militare”. Per estensione, oggi si parla di “Trappola di Tucidide” ogni qualvolta una potenza dominante viene a confrontarsi con una emergente. È il caso, ad esempio, della rivalità commerciale tra Stati Uniti e Cina, dove la potenza consolidata teme che quella emergente diventi talmente potente da non poter essere più sconfitta.

Sull’argomento, si è soffermato The Economist dell’11 marzo dedicandogli la sua copertina, “The struggle for Taiwan”, con all’interno diversi editoriali e analisi sui possibili scenari di guerra e pace. Ovviamente, molto dipenderà dall’esito del conflitto in Ucraina, che darà modo alla leadership cinese di riflettere a lungo sulla prima mossa, prima di decidere l’impiego della forza per il ritorno di Taiwan alla madrepatria cinese. Per fondati e validi motivi, l’invasione via mare di un’isola fortificata e super-armata come Taipei è molto più complicata e rischiosa rispetto a un intervento di terra, in cui la superiorità numerica è un fattore determinante, a parità di addestramento, armamenti ed equipaggiamenti. Ma, una cosa è certa fin d’ora: se conflitto aperto ci sarà tra Usa e Cina per la difesa di Taiwan non sarà certo una “guerra-lampo”, né potrà mai avere una “soluzione alla coreana”.

Ora, la vera posta in gioco per Washington è capire quali siano i tempi giusti di allerta (né troppo distanti, né troppo ravvicinati) per poter sventare o quantomeno rallentare significativamente l’invasione di Taiwan da parte del Pla (l’Esercito popolare cinese), dato che l’America non si fa eccessive illusioni sulla disponibilità della Cina a mediare su Taiwan. Lo scenario peggiore si verificherebbe nel caso che Pechino dovesse mobilitare la sua flotta, accerchiando dal cielo e dal mare l’isola per costringerla alla resa con un blocco navale integrale, terremotando così l’intero mondo (con gravissimi contraccolpi, in particolare, sulle economie dei Paesi occidentali e asiatiche) sia per le mancate forniture di microchip avanzati, sia per l’interruzione del traffico commerciale navale mondiale che passa attraverso il Mar Meridionale di Cina e lo Stretto di Taiwan. Sì, ma quali sarebbero i segnali incontrovertibili di un’invasione imminente? Per esempio, dicono gli esperti militari, il notevole aumento delle scorte di sangue nelle ore immediatamente precedenti l’avvio delle operazioni su larga scala, che farebbe la vera differenza rispetto alle esercitazioni in grande stile con munizioni reali o a salve. L’interesse vitale degli americani di poter anticipare le mosse dell’avversario su Taiwan (così come è già successo con l’Ucraina) è in ragione del tempo strettamente necessario per mettere assieme una coalizione in grado di opporsi all’avanzata cinese.

Ma, a invasione non ancora avvenuta, anche un eccesso di preparazione per l’eventuale, immediata controffensiva potrebbe precipitare all’improvviso la situazione verso un conflitto aperto. Iniziative ad alto rischio, perché potrebbero essere interpretate dalla Cina come provocatorie o, addirittura, come un atto di guerra, sono rappresentate ad esempio dall’invio preventivo di portaerei nella regione; e/o dal dispiegamento di truppe americane sul territorio dell’isola; ovvero da ogni tentativo concreto di ostacolare il transito delle petroliere che passano per lo Stretto di Malacca dirette ai porti cinesi. Idem, però, potrebbe accadere per responsabilità cinese, dato che i caccia di Pechino continuano provocatoriamente a violare da tempo e sistematicamente lo spazio aereo taiwanese, con rischi raddoppiati nel caso delle esercitazioni navali cinesi tutt’intorno all’isola, che comprendono l’impiego di missili di vario tipo. Per cui, siccome anche per la superpotenza asiatica vale la legge di Murphy, nel senso che “se una cosa potrà andare storta lo farà!”, va a finire che un colpo o un’esplosione andati a male potrebbero innescare il finimondo, come si è rischiato che accadesse tempo fa in Ucraina, quando un missile non identificato è caduto in territorio polacco! Nessuno dei due contendenti al momento, né gli Usa e i suoi alleati, né la Cina sembrano avere la supremazia per il controllo dei mari e dei cieli.

Senza il ricorso alle armi nucleari, una guerra di sottomarini, missili ipersonici, antinave e/o antiaerei e/o antimissile, battaglie tra caccia di ultima generazione, con l’impiego massivo dei famosi “aerei invisibili F-35” da parte degli Usa, potrebbe a oggi essere vinta indifferentemente dall’uno o dall’altro dei contendenti, con effetti e ricadute devastanti (soprattutto per le due prime economie del mondo!) per i prossimi cinquanta anni. Comunque vada a finire, infatti, una cosa è certa: la fine della globalizzazione e con lei delle speranze di sviluppo e di crescita dell’intera umanità. Senza la tecnologia dell’uno o dell’altra, o di entrambi, quale potrà essere la sorte di Paesi come Russia, India e Medio Oriente, e dei Paesi petroliferi che vedrebbero sprofondare nel profondo rosso i loro livelli di rendita, a causa della caduta verticale dei consumi di energia mondiali? La sconfitta di uno dei due giganti, tra l’altro, arresterà per molto tempo il fenomeno delle migrazioni e farà arretrare nello sviluppo interi continenti come l’Africa e l’America Latina. Si può ben dire, fin d’ora, che ci troviamo divisi in due schieramenti avversi, come lo fummo all’epoca della Guerra Fredda: di qua un Global South; di là un Global West.

Un segnale chiarissimo di come stia per scattare la trappola di Tucidide, lo dà la preoccupazione americana per cui in tempi brevi le forze armate cinesi potrebbero divenire troppo forti perché gli Usa possano conservare su di loro la supremazia attuale. Anche se prima del 24 febbraio il mondo si trovava a fare le stesse considerazioni in merito alla Russia e alle capacità ucraine di resistere a un poderoso esercito d’invasione, come quello dell’Armata Rossa. Di converso, anche da parte cinese si potrebbe giungere alla conclusione che sia inevitabile un’azione militare per la riconquista di Taiwan, a seguito dell’impossibilità di una soluzione concordata e pacifica. L’aspetto interessante del dossier di The Economist, oltre a disegnare, come in un videogioco, vari scenari di “war game made in Pentagon”, è questo suo fare l’avvocato del diavolo nell’interesse del resto del mondo. In particolare, osserva il settimanale parlando alla “suoceraXi, l’invasione di Taiwan sarà, obiettivamente, il più grande assalto anfibio della storia, comparativamente ben più impegnativo di quello avvenuto con il D-Day dello sbarco in Normandia nel 1944, a causa dell’impiego di molti più uomini e mezzi. Senza contare l’elevatissimo numero di perdite in vite umane che comporterebbe una simile operazione, anche se, come si è visto in Ucraina, l’argomento “doesn’t matter” (non conta nulla) per autarchi assoluti del calibro di Vladimir Putin e di Xi Jinping!

Quel che è certo, nel caso si registrino inequivocabili segnali della preparazione di un attacco imminente a Taiwan da parte della Cina, è la riproposizione in Occidente dello schieramento contrapposto “falchi-colombe”, con i primi, soprattutto tra gli alti gradi militari, favorevoli a un attacco immediato, prima che i cinesi consolidino le loro posizioni. Mentre, al contrario, i secondi farebbero pressione per l’avvio immediato di trattative diplomatiche, sconsigliando oppure opponendosi esplicitamente a un “first-strike”. E qui si pone un vero dilemma, soprattutto da parte cinese, che conosce perfettamente i dubbi e le ipotesi d’intervento di cui sopra da parte degli americani e dei loro alleati. Xi Jinping si accontenterebbe di un “fait accompli” (mettere, ciò, il mondo dinnanzi a un fatto compiuto), o spingerebbe fino il fondo l’acceleratore della crisi colpendo lui primo le forze navali Usa nella regione, in una specie di riedizione di Pearl Harbour? Nel primo caso, l’America si terrebbe le mani libere per colpire come ritorsione la flotta cinese di invasione. Nel secondo scenario, invece, ben più catastrofico per il resto del mondo, sarebbe guerra dichiarata tra Cina e Usa, con l’intervento scontato di Giappone e Australia a sostegno dell’America. L’invasione sarebbe preceduta (Ucraina docet!) da attacchi in grande stile con razzi e missili ipersonici (difficilmente intercettabili) per colpire le infrastrutture sensibili militari e civili di Taiwan.

In parallelo, Pechino farebbe ricorso alla guerra psicologica, per disincentivare la resistenza della popolazione di Taiwan. Queste le possibili azioni: oscurare radio e televisione locali; inondare di mass message con inviti alla resa i profili social dei militari dell’esercito, offrire immunità e garanzie di status per chi diserta o si ribella. Anche se, invece, è molto più probabile una feroce resistenza dall’interno, con piccoli plotoni armati di missili portatili Stinger e Javel per colpire blindati, aerei ed elicotteri. La Cina potrebbe preventivamente disattivare la rete satellitare dell’isola; nonché recidere i cavi sottomarini e fare ricorso in grande stile alla guerra elettronica, per tagliare tutti i canali di comunicazione tra gli alti comandi taiwanesi, impedendo loro di coordinarsi con le forze navali americane. Il vero problema è che queste ultime, pena l’inutilità dell’intervento, dovrebbero arrivare sul posto entro tre giorni, dato che la fase più violenta dell’attacco cinese verrebbe sferrata entro le prime 48 ore. Tutto ciò detto, si chiede The Economist, ma davvero Usa e Cina vorrebbero fare la fine di Sparta e Atene? Ce lo chiediamo anche noi.

Aggiornato il 15 marzo 2023 alle ore 10:11