Credete di aver sempre ragione? E, invece, con ogni probabilità avete torto. Questo accade sempre più di frequente perché le nostre convinzioni coincidono esattamente con ciò che ci si vuol far credere. E, siccome non abbiamo tempo per pensare, studiare, meditare, ma soltanto per acquistare, consumare, stressarci di lavoro e di sballo da rumore, velocità, sostanze, sesso e alcol, allora è giusto delegare ad altri le nostre convinzioni. Una di queste consolidate credenze, è che noi occidentali siamo i “Buoni” e stiamo sempre dalla parte della ragione. Tutti gli altri, secondo noi, debbono sedersi per mancanza di posto (Brecht docet) dalla parte del “Torto”. Vediamo, ad esempio, il voto all’Assemblea dell’Onu del 23 febbraio 2023 a New York: 141 Paesi membri su 180 si sono pronunciati a favore del “ritiro immediato” delle truppe russe dall’Ucraina. Se ci accontentassimo, verrebbe da dire che “quasi” l’intero mondo sta con i “Buoni” dell’Occidente. Ma, facendo i conti giusti, ci si accorge che dei 39 Paesi che hanno votato “contro” o si sono astenuti (tra cui spiccano la Cina e l’India e non pochi Stati africani che, in teoria, sono considerati vicini all’Europa) rappresentano la “metà” della popolazione mondiale. Quindi, la domanda corretta è: perché la metà del mondo simpatizza per i torti dell’aggressore russo, contro le evidenti ragioni dell’aggredito ucraino? In termini di schieramento para-calcistico, si potrebbe dire che oggi c’è uno schieramento del Sud Globale, contro l’Occidente globalizzato.
Se, numericamente, la maggior parte delle Nazioni del mondo condividono sempre più a fatica i nostri principi fondamentali, come il rispetto della sovranità e la condanna del ricorso all’uso della forza, i rimanenti ci sono palesemente o indirettamente contro. Ritenendo, ad esempio, dal loro punto di vista, che questo conflitto in Ucraina non sia altro che l’ennesima “guerra tra europei”, di cui quegli stessi Paesi “dissidenti” subiscono gli effetti collaterali, come i gravi contraccolpi sui rincari delle forniture energetiche e alimentari. E Vladimir Putin, che la sa lunga in merito come agente di intossicazione del Kgb all’epoca della Guerra fredda, gioca con consumato cinismo su questa corda del rancore inespresso, rivolgendosi a loro in questo modo: “I Paesi del G7 hanno dilapidato 150 miliardi di dollari per inviare armi e aiuti all’Ucraina, mentre a beneficio dei Paesi più poveri sono stati devoluti appena 60 miliardi di dollari”. Ed è dal 2010 che Putin ha lavorato alacremente a intercettare con successo il crescente sentimento anti-occidentale, come lo dimostrano i recenti risultati dell’export russo che si attestano agli stessi livelli di interscambio pre-invasione, in Paesi come Turchia, Arabia Saudita e India. E questi Stati, per così dire collaborazionisti rispetto alla Russia putiniana, non temono le rappresaglie economiche dell’Occidente, proiettandosi nel mondo di domani caratterizzato dalla contrapposizione sino-americana. Un mondo futuro appunto che, sotto l’egida di Cina e Usa, si troverà ancora più frammentato e al quale l’Occidente, se vuole restare nelle prime posizioni, dovrà dare una risposta politica che allontani i Paesi emergenti dall’attrazione euroasiatica, perché Putin con la sua visione del mondo non è il domani ma sempre più coincide con un passato che non può e non deve più tornare.
Sarà, però, difficile convincere alleati di ferro della Russia, come lo è oggi l’Iran, a invertire la rotta o, quantomeno, ad assumere un atteggiamento più neutrale per quanto riguarda l’aperto sostegno militare a Putin, come oggi avviene con la fornitura dei droni (Gps) suicidi come gli Shaded-36, molto economici ma micidiali per centrare i bersagli civili con piccole cariche di esplosivo. Mosca esita ad accogliere l’offerta di Teheran per l’offerta di missili balistici ipersonici con elevata carica esplosiva, di cui l’Iran è il primo e più avanzato produttore mediorientale, nel timore di un’escalation delle forniture militari americane con l’instradamento verso Kiev dei supermoderni sistemi missilistici Atacms, che hanno una portata di 300 chilometri e un altissimo livello di precisione sui bersagli. Occorre comunque tener conto che i missili Fate-313 iraniani hanno una gittata di 500km, mentre gli Zulfiqar arrivano a 700 chilometri e la loro fornitura in grande stile può fare la differenza nel conflitto in corso. A compensare i rischi sostenuti da Khamenei per sostenere militarmente Putin, è arrivato a Teheran il governatore della banca centrale russa, Elvira Nabiullina, così come aveva fatto in precedenza l’Ad di Gazprom, Alexei Miller, per offrire alle autorità monetarie locali un aiuto concreto a bypassare le sanzioni bancarie occidentali. Ma anche la fornitura dei droni alla Russia in guerra ha un ritorno strategico interessante per l’Iran, che può in tal modo sperimentare e implementare, a partire da un teatro reale di guerra, la sua tecnologia militare avanzata. Ed è stata proprio la Russia, in base a un programma definito “sofisticato” dall’intelligence Usa, a fornire all’Iran negli anni Novanta il necessario know-how per la produzione di missili balistici.
E fu così, grazie alla guerra in Ucraina, che l’Iran è divenuta nuovamente uno Stato rispettabile all’interno dell’Asse antiamericano delle autocrazie dei così detti “Thug-State”, o Paesi canaglia. Domani che cosa accadrebbe se la Russia fornisse all’Iran, per la protezione dei suoi siti nucleari di arricchimento dell’uranio, le batterie supermoderne missile-antimissile, come gli S-400 (già acquistati da Arabia Saudita, Cina, India e Turchia)? Quanti piloti ed aerei perderebbe Israele nel tentativo di colpire con un first-strike gli impianti iraniani, per impedire agli ayatollah la realizzazione della prima bomba atomica islamica nella regione? E non è pensabile nemmeno un atto unilaterale di guerra da parte di Tel Aviv nei confronti di Teheran, perché Putin a quel punto si sentirebbe in obbligo di intervenire persino militarmente in difesa del suo alleato, aprendo un fronte ben più esplosivo in Medio Oriente, dato che Israele è, a sua volta, il più fedele alleato degli Usa nella regione! Recep Tayyip Erdoğan rappresenta un altro attore sempre più emergente per il suo ruolo di “stabilizzatore” degli equilibri mediorientali nella futura era post-americana, anche se ancora il presidente turco non ha ancora ben chiarito quale dovrebbe essere il suo ruolo: rafforzare l’alleanza tra Russia e Iran, o assecondare gli interessi cinesi nella regione? Per ora, non dovrebbero esservi dubbi, dato che è proprio il basso costo delle forniture energetiche russe ad aver in qualche modo rallentato il processo di bancarotta economico-finanziaria della Turchia, che ha un’inflazione alle stelle e una scarsa governance del suo debito pubblico. Per il momento, Arabia Saudita e Emirati Arabi continuano a sostenere con generose donazioni il loro “Uomo forte” in Medio Oriente.
Sembrerà incredibile, ma a questa rivoluzione contro il dominio politico dell’Occidente e dell’America in particolare, si sta affiancando anche parte del mondo arabo. Infatti, grazie a una forte iniziativa degli Uea, gli Emirati Arabi Uniti (che di recente si sono riavvicinati a Mosca), che ha avuto il sostegno di Arabia Saudita ed Egitto, si è aperta la discussione se e come riammettere nella Lega Araba la Siria, fedele alleata dell’Iran a sua volta nemico acerrimo degli Stati arabi sunniti, offrendole un concreto aiuto finanziario per risollevare la sua economia uscita distrutta dalla guerra civile. Questo perché gli Uea hanno una loro politica identitaria (di recente, sono stati i primi a ristabilire rapporti diplomatici con Israele) che tengono a mantenere ben distinta dagli interessi americani nella regione. Per gli emiri, infatti, la stabilità e la prosperità mediorientale è ritenuta strategicamente ben più importante dell’alleanza con l’America e l’Occidente. Tanto più che dalle parti di Abu Dhabi le primavere arabe sono state vissute con grande sospetto, essendo ritenute una minaccia per i governi autocratici, ma stabili, delle monarchie del Golfo. All’epoca, prima dell’inizio della guerra civile, vi sarebbe stata addirittura un’iniziativa segreta da parte di Tel Aviv nei confronti di Assad per firmare un trattato di pace! Per cui, il riavvicinamento tra Siria e Lega Araba a questo punto è vista positivamente dall’attuale Governo Netanyahu, in funzione antiraniana, in modo da attenuare la forte dipendenza politica, economica e militare che contraddistingue oggi i rapporti tra Damasco e Teheran.
Ora, che cosa significa il riavvicinamento Iran/Arabia Saudita, prima mediato da Iraq e Oman, e poi perfezionato dalla Cina con l’accordo sottoscritto a Pechino tra Riad e Teheran per la riapertura delle loro rispettive ambasciate entro due mesi? Significa in geopolitica che stanno rapidamente cambiando le alleanze tra Stati petroliferi mediorientali e Occidente. Tanto più che eticamente e religiosamente il mondo musulmano preferirà sempre più Confucio a un Occidente corrotto, depravato e profondamente antislamico! Politicamente ed economicamente. E bisognava aspettarsela questa reazione, dato che gli Stati petroliferi del Golfo sono stati “già” duramente colpiti nella loro rendita dalla raggiunta autosufficienza energetica degli Usa! Finite le interdipendenze di prima, si guarda al gigante cinese e al suo enorme fabbisogno di energia a buon mercato per la sua crescita economica. Se la fusione nucleare fosse già realtà, i Paesi del Golfo potrebbero contare solo sull’energivora Cina per la vendita della loro materia prima, la sola quasi esclusiva fonte di entrate nel loro caso. L’interscambio con l’Occidente, a quel punto, approssimerebbe lo zero, compensato solo dal know-how cinese sempre meno inferiore per qualità e high-tech a quello Usa ed europeo. Ma se i ricchi stati petroliferi mediorientali scegliessero la Cina schierandosi dalla sua parte nella confrontation con gli Usa, allora si capisce bene quale silenziosa rivoluzione in atto ha scatenato con nostra grande sorpresa, e a nostro sfavore, la guerra in Ucraina.
Aggiornato il 13 marzo 2023 alle ore 13:49