Ucraina: perché è necessario vincere

Negli ultimi giorni, all’interno della politica occidentale così come dell’opinione pubblica, si sta facendo strada un terzo fronte, che si colloca esattamente a metà strada tra il pacifismo beota di chi sostiene che continuare ad armare l’Ucraina significhi soltanto prolungare il conflitto e che sia necessario convincere le due parti a trattare – senza spiegare in che modo e sulla base di quali condizioni – e chi ritiene necessario stare dalla parte di Kiev fino alla fine, senza se e senza ma. Secondo i fautori di questa terza via “negozialista” è, sì, giusto armare l’Ucraina e aiutarla a resistere, ma senza pensare di poter andare avanti fino alla vittoria, bensì avendo come obbiettivo il negoziato: l’idea è quella di portare la Russia allo sfinimento e di costringere così Vladimir Putin a sedersi al tavolo delle trattative con pretese ragionevoli. Da qui il malcelato fastidio per le continue richieste di armi ed equipaggiamenti sempre più offensivi da parte del leader ucraino, Volodymyr Zelensky, che ormai non chiede più l’aiuto dell’Occidente per resistere, ma per vincere. Per dirla con le parole del presidente francese, Emmanuel Macron, la Russia non va umiliata: come a dire che Putin va solo ricondotto a più miti consigli. Di questo passo, inoltre, se la guerra di protrarrà ancora per molto – dicono i “negozialisti” – lo stesso Zelensky, anche se vittorioso, potrebbe ridursi a dover governare su un cumulo di macerie, su un popolo distrutto e decimato.

Ora, perché questa prospettiva è irrealistica tanto quanto quella portata avanti dai pacifisti? Anzitutto, i russi non demorderanno facilmente, né si siederanno mai al tavolo delle trattative in maniera onesta, sincera e ragionevole: come potrebbero, del resto, se hanno attaccato un Paese sulla base del nulla, ovvero di assurdi pretesti inventati dalla propaganda di regime e di rivendicazioni imperialistiche volte a dare prestigio all’immagine dell’ex ufficiale del Kgb che siede al Cremlino? In secondo luogo, per quanto ridimensionate, le rivendicazioni russe rimarrebbero, comunque, assurde e fuori luogo: anche se si trattasse “solo” della neutralità dell’Ucraina o del riconoscimento dell’autonomia alle regioni orientali, ciò costituirebbe in ogni caso una inaccettabile limitazione della sovranità di Kiev. Il punto è non fare alcuna concessione a Mosca. Il punto è respingere l’offensiva russa e fare in modo che si trasformi in un clamoroso fallimento. Il punto è non lasciare che la Russia ottenga alcunché da questa sua aggressione. Questo per tutta una serie di ragioni. Primo, perché se anche i russi riuscissero a ottenere qualcosa, seppur minima, magari ai tavoli negoziali, ciò sarebbe comunque una vittoria per loro, anche se diminuita.

Secondo, questo, a sua volta, permetterebbe a Putin di rafforzare la sua immagine, in Russia come all’estero; farebbe del putinismo e, più in generale, del modello autocratico, un modello vincente, suscettibile di essere imitato ed esportato anche al di fuori dalla Russia. A quel punto, quanto ci vorrebbe perché qualche politicante occidentale si proponga alle masse quale imitatore del dittatore russo? E quanto ci vorrebbe perché quelle stesse masse, suggestionate dal fatto che l’autocrate di Mosca sia comunque riuscito a ottenere qualcosa dalle sue scorribande, inizino a credere che, in fin dei conti, la rinuncia alla libertà non sia poi un così grande sacrificio, se si tratta di ricevere in cambio più ordine, pace, stabilità e potenza nazionale? E cosa impedirebbe a una Russia uscita semi–vittoriosa dalla guerra in Ucraina di riprovarci di nuovo, magari con la Moldavia? La guerra di Crimea dovrebbe averci insegnato che qualunque negoziato col regime russo è fallimentare in partenza e serve solo a rimandare l’inevitabile.

Ecco perché l’Ucraina deve vincere: perché i rapporti tra gli Stati continuino a essere scanditi dal diritto e non dalla legge del più forte e del più spregiudicato; perché le autocrazie non pensino di poter aggredire e invadere altre nazioni senza nessuna conseguenza, anzi, ottenendo sempre qualcosa dalle loro imprese militari; per la dignità, l’onore e il prestigio delle democrazie liberali, che per loro natura non ricorrono per prime alle armi per risolvere le controversie con altri Stati, ma che si difendono e sanno respingere gli aggressori, che sanno come tutelare la loro sicurezza e che non devono lasciare che i leader del mondo non democratico e illiberale pensino a esse come a dei regimi deboli e pronti a cadere sotto i colpi d’artiglieria.

Quanto a Zelensky, forse è vero che se non si aprirà quanto prima un tavolo negoziale finirà per governare su un cumulo di macerie e su una popolazione decimata. Questa dovrebbe essere una buona ragione per mostrarsi conciliante con chi ha fatto scempio del suo Paese? Per arrendersi all’idea di vedere il proprio territorio smembrato o la propria sovranità nazionale limitata? Per rinunciare al percorso di avvicinamento alle democrazie occidentali per non indispettire Mosca? Ed è meglio che gli ucraini muoiano come nazione, come identità, come popolo nel senso più vero e profondo del termine, attraverso la russificazione coatta, anziché combattendo per la propria libertà e per il proprio Paese? È chiaro che i “negozialisti” ragionano in questi termini perché non sono loro a dover combattere per quello che amano e per la loro sopravvivenza. Perché non è la loro esistenza a essere messa in discussione, almeno per ora. Perché non hanno ancora compreso l’entità del pericolo dei regimi come quello russo per la pace mondiale e la libertà dei popoli.

Aggiornato il 21 febbraio 2023 alle ore 11:10