Clientele cinesi: secondi in tecnologia

“Il comunismo è incapace di stimolare la creatività che crea innovazione”. Questo il lapidario capoverso iniziale in grassetto di “Why China will never lead on Tech”, di Simone Gao, pubblicato dal Wall Street Journal (Wsj) del 30 gennaio scorso. In sintesi, la tesi che si intende dimostrare è la seguente: a causa della struttura ideologica a-meritocratica, clientelare e nepotista del Partito comunista cinese (motore e mente pensante del “capitalismo di Stato”!) né oggi, né per il prevedibile futuro la Cina sarà mai in grado di conquistare il primo posto nell’innovazione tecnologica (nei microchip, in particolare). Pechino è destinata, quindi, a restare seconda per know-how dietro gli Stati Uniti e le altre democrazie avanzate, occidentali e asiatiche. Come sempre, al centro di tutto si colloca la questione dei semiconduttori (in inglese “manufacturing chip”), per la produzione di un qualsivoglia bene che integri nel suo funzionamento parti meccaniche e/o elettroniche, indispensabili per la produzione di macchine, prodotti digitali, elettrodomestici, e così via. In questo clima sempre più accentuato da Guerra Fredda II, la sfida sui microchip è in assoluto la più importante e vitale per un progressivo decoupling tra America e Cina. Dove con quest’ultima definizione si intende una sorta di dissociazione produttiva rispetto alle forti interdipendenze, o catene di valore, che la globalizzazione ha creato negli ultimi trenta anni tra Occidente e Asia. In merito, gli Usa hanno fatto ricorso a nuove forme di protezionismo che, da un lato, includono forti incentivi per le imprese che ri-delocazzino, riportando le loro produzioni in patria.

Mentre dall’altro, con il recente Chips Act (corredato di una dotazione di circa 200miliardi di dollari, a sostegno degli investimenti privati per nuovi insediamenti produttivi), l’Amministrazione Biden manifesta in modo chiaro l’intenzione di voler ricostruire la sua dorsale produttiva nel settore strategico dei semiconduttori. Del resto, la Cina ha fatto “esattamente” la stessa cosa, con ben altri risultati come si vedrà, immettendo nel suo sistema produttivo 1 trilione di yuan (148miliardi di dollari) per sostenere l’industria del settore. Ed è proprio qui che casca l’asino (cinese!), inciampando su clientelismo e corruzione, proprio come accadde qui da noi ai vecchi tempi della Dc! Di recente, infatti, il governo cinese ha rivelato pubblicamente l’esito di alcune inchieste anticorruzione che hanno investito top manager come Ding Wenwu, ceo di China Integrated Circuit Industry Investment Fund (o “Big Fund”), che vanta una dotazione di 45miliardi di dollari e rappresenta il veicolo principale del Governo cinese, a sostegno dei suoi colossali investimenti nell’industria dei microchip. Il Fondo ha investito le sue risorse sui Big-Tech cinesi dei “chip-maker” (Semiconductor Manifacturing International Corp.; Yangtze Memory Technologies Co), particolarmente colpite dall’embargo Usa alla Cina sull’esportazione di componenti high-tech per la produzione di semiconduttori. Infatti, la speranza della Cina di stare al passo con il suo competitor mondiale faceva affidamento sulle importazioni (oggi embargate), dal Giappone e dall’Olanda, di macchinari iper-sofisticati di ultima generazione per la produzione di microchip avanzati.

La contromossa di Pechino alle sanzioni statunitensi è stata quella di incentivare al massimo le start-up cinesi e i fornitori locali di semiconduttori, invitandoli ad abbassare i prezzi, a sostegno dei consumi interni. In modo tale, come sostiene Bloomberg, da indirizzare il flusso (pur sempre limitato) dei suoi capitali statali verso quelle aree tecnologiche in forte espansione, all’interno delle quali nessun’altra nazione può vantare oggi il suo predominio, o monopolio. Ma a dimostrare il ritardo della Cina rispetto all’Occidente è proprio questo suo ridimensionamento, rispetto alla pretesa dell’onnipresenza dell’aiuto di Stato per lo sviluppo a tutto campo delle tecnologie avanzate, in grado di competere sui mercati internazionali. E questo fallimento si spiega con il fatto che il funzionamento stesso del sistema comunista cinese rappresenta un ostacolo insormontabile per i processi d’innovazione. Si prenda, a esempio, i “top scientists” (scienziati di punta): a causa del fatto che costoro sono obbligati (come ai bei tempi del nazifascismo!), per accedere ai finanziamenti pubblici per la ricerca, a essere iscritti al Partito comunista, che distribuisce e orienta i fondi statali nel settore e determina le carriere degli scienziati stessi, vale la perfida equazione per cui “più sei in alto nel ranking del Partito, più riesci a promuovere progetti e acquisire maggiori quote di finanziamento pubblico”.

Morale della favola: sono proprio i “top-scientists” a fare fortuna promuovendo progetti e orientando il finanziamento pubblico verso quelle società private di cui i loro “clientes” sono proprietari, ottenendo in cambio sostanziose “bustarelle” (“kickbags”). Ed è così che le recenti inchieste anticorruzione hanno visto coinvolti top manager del “Big Fund” di cui sopra! Per di più, a seguito della sospensione degli investimenti statali, e in base alle direttive del Governo centrale per l’utilizzo dei sussidi nelle aree strategiche della produzione e ricerca sui semiconduttori, le start up di microchip con solidi agganci nei governi locali, incaricate della selezione e della verifica delle candidature, hanno da parte loro abbondantemente approfittato (spesso senza alcun merito!) dei sussidi concessi dalle competenti autorità decentrate. Con la crisi profonda che attraversano il settore dell’edilizia (privato di gran parte dei sussidi statali e locali per la costruzione di infrastrutture e di complessi residenziali), e quello dell’industria farmaceutica, che ha visto il crollo delle proprie produzioni e della distribuzione di farmaci, a seguito della cancellazione dei tamponi obbligatori e delle misure di lockdown, le imprese relative si sono riciclate, quanto meno sulla carta, in “chip-manifacturing”, con il bel risultato di fallimenti catena e l’abbandono in itinere di progetti di produzione-ricerca! Ma è pur vero, osserva Wsj, che anche “senza” questa limitazione di sussidi pubblici il ritardo della Cina sarebbe avvenuto lo stesso, proprio a causa della mancanza di visione a lungo termine che la sua leadership dimostra nei confronti del futuro del Paese.

Il che si spiega, da un lato, con il fatto che i top manager, come i dirigenti del colosso Huawei, che è uno dei motori principali per lo sviluppo della ricerca sui microchip, sono vincolati per continuare a ricevere fondi pubblici al raggiungimento di risultati tangibili entro i primi due anni dall’avvio dei progetti sovvenzionati relativi. Il che, ha fatto sì che Huawei raggiungesse gli obiettivi prefissati soltanto nell’ambito delle applicazioni software, e non in quelle dell’hardware. La compagnia, infatti, è costretta dal sistema (comunista) a privilegiare quelle innovazioni che possano dare profitti nell’immediato, sacrificando gli aspetti della ricerca a lungo termine che, poi, sono i soli a produrre vantaggi concreti a livello di mercati globali! Ma questo di Huawei, dice Gao, è solo uno degli aspetti negativi più eclatanti che affligge la società cinese contemporanea a guida comunista. Sul fondo c’è, infatti ben di peggio, dato che la Cina, dimostra un’incapacità sistemica di stimolare la creatività e la libertà individuale nella ricerca di base, che sono le sole a poter determinare le grandi innovazioni, a loro volta frutto di menti altamente creative, privilegiando in assoluto al contrario un metodo di “testing” per la selezione scolastica e la formazione superiore che penalizza volutamente la creatività e la libertà del pensiero, ai quali si preferisce l’assoluto conformismo ai dogmi del Pcc (e alla dottrina Xi), che intende coltivare presso i suoi cittadini obblighi di fedeltà e di riconoscenza, anziché incoraggiare la curiosità nella ricerca avanzata. In base ai principi del partito e del suo autocrate a vita, i cinesi debbono unicamente focalizzarsi sul raggiungimento degli obiettivi prefissati, ottenendo il massimo dei benefici a minor costo!

In questa ottica, “sogni e passioni diventano impraticabili, costosi e perfino ridicoli, per cui non vanno perseguiti. Pertanto, una Cina che non può coltivare il libero pensiero, sarà sempre in secondo piano e non diverrà mai il leader, nei confronti di un Occidente in grado di immaginare e di inventare il proprio futuro”. Amen. Viene, a questo punto, il fondato sospetto che l’ossessione di Pechino per il ricongiungimento alla Madre Patria di Taiwan abbia molto a che fare con i semiconduttori avanzati, di cui Taipei è il più grande produttore mondiale e in assoluto all’avanguardia nel settore, grazie al colosso di Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company). Moltissime questioni di vitali importanza per tutto il mondo sorgono, infatti, da una possibile e sempre più consistente invasione manu militari della Cina per la riconquista di Taiwan. Che cosa accadrebbe alla manifattura di tutto il mondo se Pechino ne acquisisse il controllo, o se gli insediamenti produttivi collocati presso le coste dell’isola subissero danni irreparabili e i suoi scienziati fossero deportati nella madrepatria? Ecco, questa è tutta un’altra questione di importanza geostrategica fondamentale che varrà la pena approfondire nell’immediato futuro!

Aggiornato il 06 febbraio 2023 alle ore 09:26