Iran: ieri e oggi

La storia non si fa con i “se” e con i “ma”, è vero. Però non si possono neppure dimenticare le pagine, controverse e scomode, che disturbano l’ortodossa e monolitica narrazione degli eventi avvenuti nel “secolo breve”. Nel 1953 veniva condannato, dopo un processo farsa e a pochi mesi di distanza dalla copertina di Time Magazine, che lo celebrava “man of the year”, il popolarissimo primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq. La sua principale colpa era quella di aver nazionalizzato il settore petrolifero persiano, minacciando i grandi interessi britannici nell’area. Appena insediato, aveva infatti rifiutato di rinnovare le concessioni alla Anglo-Iranian Oil Company (i britannici si opponevano a una ripartizione 50-50 dei ricavi dal petrolio… ring a bell?) e aveva trasferito la titolarità dei pozzi alla neocostituita Nioc. Resistendo, coraggiosamente, alle sanzioni britanniche – e persino a un blocco navale della flotta di sua Maestà – Mossadeq ricorreva con successo alle Nazioni Unite, riportando una memorabile vittoria diplomatica. Per questo, Time lo eleggeva “uomo dell'anno”.

Pochi mesi dopo, però, i servizi segreti inglesi – aiutati, per motivi “geostrategici”, dalla Cia di Allen Dulles – orchestravano l’operazione Ajax, con disordini e violenze di piazza (ring another bell?) culminanti nella deposizione di Mossadeq e nel reinsediamento di Reza Pahlavi, riparato pochi mesi prima in Italia. La monarchia costituzionale diventava, sotto il tallone dei servizi occidentali, una monarchia assoluta. Mossadeq veniva rapidamente processato con pretestuosi capi d’accusa e condannato a morte. Uomo coraggioso e di solidi principi, alla lettura della sentenza, dichiarava: “Non intendo presentare alcun appello contro una condanna a morte e non accetterò nessun perdono, anche se lo Scià deciderà di accordarmelo. Il perdono è per i traditori e io, invece, sono la vittima di un intervento straniero”.

Per non trasformarlo da eroe in martire, lo Scià commutava, comunque, la pena in detenzione. Il ventennio del regime di Pahlavi si distingueva, da un lato, per la modernizzazione e la occidentalizzazione del Paese, grazie ai ricavi del petrolio; dall’altro, per la diffusa corruzione e la feroce repressione di qualsiasi dissenso. Erano famigerate le violenze del suo servizio di sicurezza interna, la Savak, contro le proteste giovanili, sorte sull’onda del ’68 europeo. La repressione divenne sempre più brutale: a settembre del 1978 l’esercito sparava sulla folla di dimostranti, nella capitale, in piazza Jaleh, facendo una carneficina. I giovani che, in nome della libertà, avevano animato la protesta contro il regime corrotto e violento di Pahlavi aprivano, invece, la strada all’insediamento di una ancor più autoritaria e sanguinosa dittatura.

Se Mossadeq non fosse stato esautorato con la forza, chissà, forse oggi non saremmo costretti a testimoniare le brutalità commesse dal Governo degli Ayatollah su tante, coraggiose, giovani ragazze iraniane che si oppongono ai soffocanti precetti del regime islamico. Ma come si diceva in premessa, la storia non si fa con i “se”. Serva almeno di memento e caveat per altre situazioni simili dei nostri giorni.

Aggiornato il 08 dicembre 2022 alle ore 09:16