Cin-cin Cina: il fallout autocratico

Trent’anni fa a Pechino. Ad appena tre anni dall’olocausto di Piazza Tienanmen, Deng Xiaoping dava il primo giro di manovella alla macchina del miracolo economico cinese, semplicemente slegando le mani agli animal spirit del mercantilismo millenario del suo popolo, finalmente libero di commerciare e di intraprendere, ma fino a un certo punto! Così iniziò l’avventura dell’economia di mercato socialista, perfezionata dal neo “Imperatore Celeste” Xi Jinping in “capital-comunismo”, dove a farla da padrone incontrastato è il Partito Unico Comunista cinese. Come in tutte le teorie e le ideologie politico-economiche (e tale fu il marxismo-leninismo, che riguardava in particolare il riscatto della componente operaia nei rapporti asimmetrici di produzione ottocenteschi tra quasi-schiavi e padroni), esiste un patto non scritto ma inviolabile tra Potere e Cittadini. Nel caso cinese, il tutto si sintetizza nello slogan “arricchitevi ma non occupatevi di politica”, in cambio il Partito-Stato pensa a tutto per Voi. Ma l’onnipotenza non è di questa terra, come sanno bene i grandi dittatori della Storia. Ora, per capire che cosa sta accadendo in Cina con i disordini e le manifestazioni popolari anti-lockdown, occorre partire da alcune, indispensabili premesse. I “Timonieri” post-maoisti hanno strutturato nel tempo un’impostazione pragmatica del potere che, per l’essenziale, aveva la sua sintesi e rappresentazione immaginifica in un sistema “a pistone”, in cui le leve per l’aumento o il rilassamento della pressione sul sistema-Paese, in termini economici e sociali, sono sempre restate nelle mani di un ristretto vertice politico ed esecutivo del Pcc cinese.

Meccanismo che poi si è venuto esasperando quando dal livello collegiale si è passati all’unica volontà imperiale e dispotica del Grande Condottiere Xi Jinping. Il “pistone” però (si veda in merito la brillante analisi del Wall Street JournalXi Jinping approches multiple points of no return”) presuppone che i processi di compressione siano “reversibili”. Si può quindi costruire il capital-comunismo fino a raggiungere un risultato predeterminato, sussidiando per decenni l’economia nazionale con parecchi trilioni di yuan di risorse statali, per portarla a una crescita ininterrotta a due cifre per venti anni di seguito, facendo così della Cina la seconda potenza mondiale. In teoria, grazie al meccanismo “a pistone”, si può persino invertire per volontà dell’Autocrate la tendenza all’accumulazione capitalistica di grandi Holding del digitale come Alibaba, Tencent, Huawei. Decidendo ad esempio “dall’alto” la socializzazione parziale dei profitti e adottando una legislazione nazionale restrittiva, per quanto riguarda le speculazioni azionarie sulle borse estere (Wall Street, in particolare) di giganti dell’e-commerce come Alibaba. Ma da sempre l’hi-tech è solo una vetrina mediatica di un finto liberalismo, dato che lo Stato comunista cinese mantiene per sé il controllo totale sulle attività economicamente strategiche dell’economia, gestite attraverso grandi aziende nazionalizzate che hanno il monopolio in materia di elettricità, petrolio, costruzioni, banche, ferrovie, assicurazioni, telecomunicazioni, automotive e sfruttamento minerario.

Selezionando questo link si ha un quadro chiarissimo, per grandezze assolute, di come da quattro decenni funzioni un’economia semi-centralizzata alla cinese, organizzata per grandi conglomerati industriali di settore (tipo Kombinat sovietici) controllati dallo Stato. Limitatamente ai dati citati in tabella, vale circa un decimo il rapporto tra il peso delle attività economico-occupazionali delle società private e quello delle aziende di proprietà dello Stato. Da qui, si intuisce benissimo con chi abbiamo a che fare: noi rispettiamo le regole del mercato, loro invece giocano duro, finanziando con decine di trilioni di yuan un possente conglomerato finanziario-industriale che opera un gigantesco dumping rispetto ai costi di produzione di analoghi settori industriali occidentali. Ma la smania di voler controllare tutto con il “pistone” totalitario sta per avere la sua massima e più severa sanzione dall’imminente deflagrazione della bolla immobiliare cinese (definita, in termini un po’ più apocalittici, come un “pallone” dai più accreditati osservatori finanziari mondiali), a seguito della scelta del Governo di mantenere bassi i prezzi degli immobili. Di recente, Pechino ha infatti introdotto nuove norme che limitano il montante degli asset detenuti dai grandi investitori immobiliari del Paese: mossa quest’ultima che ha messo in crisi i principali costruttori nazionali, dopo che per quaranta anni si è lasciata dilagare senza regole la speculazione immobiliare. Il più danneggiato di tutti, stando ai dati di bilancio, è il mega-gruppo Evergrande che, avendo registrato di recente un passivo di 300 milioni di dollari, ha tutto da temere dal crollo delle vendite di case. Le cronache finanziarie attestano che la Holding cinese non è stata in grado di onorare il pagamento agli investitori internazionali di 1,2 miliardi di dollari di interessi passivi, cosa che ha indotto l’agenzia di rating Fitch a dichiararne il default, facendo crollare del 90 per cento il prezzo delle azioni della Società!

Decisione quella di Fitch che, di certo, influirà assai negativamente sulle trattative in corso tra Evergrande e i creditori ai fini della ristrutturazione del suo debito, seminando il panico negli operatori di borsa che temono il contagio derivante dalla destabilizzazione dei settori (immobiliare e bancario) “made in China”. Del resto, come tutte le holding che prima o poi si ammalano di gigantismo, anche la Evergrande si è “ingrandita” a dismisura, estendendo i suoi interessi economico-finanziari alla produzione di auto elettriche, alimenti e bevande e all’acquisto della più grande squadra di calcio del Paese: il Guangzhou. Ed essendo Evergrande “too-big-to-fail”, il Tesoro cinese sarà costretto a intervenire per salvarla: del resto, decine di migliaia di persone hanno acquistato sulla carta immobili di abitazione, e molte altre imprese dell’indotto sarebbero costrette a fallire a seguito del default della più grande holding immobiliare cinese. Come sempre accade, il diavolo statalista fa le pentole ma mai i coperchi. Quindi, altro che marcia trionfale delle autocrazie sulle democrazie!

Sempre nella presunzione del “pistone”, Xi Jinping ha ritenuto di dover azionare un potente freno magnetico, non appena si è accorto che le riforme economiche stavano mettendo a rischio il potere assoluto del Partito Comunista. Così, il “Timoniere” ha girato in senso opposto la “manovella” denghista, in modo da invertirne la marcia per ostacolare l’espansione dell’impresa privata, penalizzandola attraverso la scelta politica di una maggiore concentrazione delle attività economiche cinesi a beneficio dei grandi “Kombinat” di Stato. Idem, per la drastica limitazione voluta da Xi agli investimenti dall’estero, ai quali sono state imposte per legge condizioni capestro.

Però, come sempre, il delirio d’onnipotenza è l’anticamera dell’Inferno. Da un lato (vedi il New York Times con “In a challenge to Beijing, unrest over ‘zero-covid’ lockdowns spreads”), le cronache dai Mondiali di calcio in Qatar, con folle negli stadi inconcepibili per le norme anti-Covid di Pechino, hanno mostrato a un miliardo di cinesi come il resto del mondo conviva tranquillamente con la coda della pandemia, senza ricorrere né ai lockdown, né ai distanziamenti, né alle mascherine. Dall’altra parte, Xi si è trovato con il “pistone” inceppato per le sue decisioni drastiche sul contenimento della pandemia da Covid che, al contrario di Tienanmen, hanno saldato nella protesta popolare studenti, classe operaia e ceti medi. Perché per lui, ormai, non è più possibile rilasciare la pressione facendo tornare indietro il cilindro a causa del semplice fatto che, avendo rinunciato a vaccinare 1,4 miliardi di persone con i ben più efficaci vaccini (occidentali!) di Pfizer e Moderna, il virus se lasciato dilagare farebbe letteralmente strage in una popolazione con basse difese immunitarie e prevalentemente anziana! Anche qui, in difetto di onnipotenza, avendo mantenuto stazionaria per decenni la pressione demografica negativa sulle nascite, denominata “one-child-policy”, alla quale si è rinunciato soltanto cinque anni fa, non si può imporre per diktat ai cittadini cinesi di riprodursi a volontà. Infatti, con soli 500mila nuovi nati nel 2021 (il tasso più basso registrato dagli anni Sessanta!) Xi e i suoi successori hanno condannato a un inesorabile declino il futuro dell’economia cinese, minacciata dal crollo dell’occupazione e dei consumi interni! Pertanto, care autocrazie euroasiatiche, la gara è lunga prima che possiate cantare vittoria!

Aggiornato il 05 dicembre 2022 alle ore 11:52