Mongolia, ago della bilancia geopolitica in Asia

In media ogni caccia da combattimento Lockheed Martin F-35, di cui oltre 700 versioni sono utilizzate dall’aviazione degli Stati Uniti, costa novanta milioni di dollari e contiene nelle sue parti elettroniche 417 chili di terre rare. E proprio in materia di terre rare si sta riproducendo – a livello mondiale – l’orrido patto tra l’Unione europea (con la Germania in prima fila) e la Russia, che in vent’anni ha arricchito un nemico (quasi) dichiarato.

La Cina produce il 97 per cento delle terre rare utilizzate in tutte le nazioni. Usa, Australia e Canada godono di una buona produzione di queste risorse. Ma si tratta di riserve strategiche, da non consumare. Le terre rare cinesi, in realtà, provengono dalla Mongolia interna, una delle tre regioni che chiedono autonomia e indipendenza da Pechino. In particolare, nella Mongolia cinese ci sono state proteste e si sono verificati scontri – prontamente repressi – per chiedere la cancellazione dell’entità e dello studio della lingua mongola dai loro testi scolastici.

Baotou, capitale della nuova Corsa all’oro, sembra San Francisco ai tempi della golden rush. In pochi decenni, grazie all’estrazione mineraria, è passata da 97mila abitanti a più di due milioni e mezzo. L’estrazione di due minerali in particolare, il neodimio e il cerio, sarebbe possibile anche in diverse altre nazioni ma si fa soltanto in Cina perché le terre rare, soprattutto le due appena ricordate, causano un inquinamento molto pesante. Il che è possibile solo in una terra utilizzata da Pechino come una colonia in condizioni di schiavitù. Qualcosa di simile succede in Tibet, con l’uranio.

La Mongolia esterna è anch’essa ricca di risorse minerarie. La stessa Italia ricava terre rare da questa nazione che nel 2011 ha avuto un incremento del 17,3 per cento del Pil e che comunque, nel 2022, si dovrebbe attestare oltre il 7 per cento. Anche il Giappone, nel tentativo di affrancarsi dalla Cina, sta provando a diventare il terzo partner di Ulan Bator, in alternativa al duplice soffocamento di Russia e dell’ex Celeste impero. La Francia e l’Australia cercano e ricavano uranio, il che ha creato mutazioni genetiche nel bestiame che si trova vicino ai giacimenti.

Tre distinti soggetti sono quindi al capezzolo mongolo. Potrebbero ridursi a due soltanto, qualora proseguisse il lento avvicinamento tra Mosca e Pechino, che però sono storicamente nemici perché la Cina rivendica la primogenitura in Siberia e nelle nazioni dell’ex Sovietistan, dove la penetrazione economica cinese (avanguardia del potere politico) è vista con preoccupazione dal nazionalismo putiniano. Le due nazioni combattono da anni per la “conquista” della Mongolia esterna. È questo uno dei motivi per cui molti analisti vedono impossibile un’alleanza tra Russia, Cina e India. Quest’ultima è, contemporaneamente, amica di Mosca (manovre ed esercitazioni congiunte sono in corso in questi giorni), membro del Quad occidentale, nemico e concorrente della Cina, con la quale sarà molto difficile trovare accordi sulle linee di confine himalaiane.

In tale quadro, l’Occidente è preoccupato per la realizzazione della Soyz-Vostok pipeline, parte del progetto Power of Siberia, che porterà 50 miliardi annui di metri cubi di gas russo a Pechino. Un progetto, peraltro, visto con preoccupazione anche dalla Mongolia. Si pensi che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha trascorso parte della sua infanzia nella città mineraria di Erdenet, in Mongolia, perché era figlio di un tecnico minerario al servizio dell’Unione Sovietica. In quegli anni la miniera di rame di Erdenet serviva a supplire l’arrivo di rame dal Cile, dopo il golpe militare del 1973, con il quale gli Usa sottrassero la nazione sudamericana all’influenza sovietica. Pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, riporta The Diplomat, la Erdenes Mongol e la Gazprom hanno sottoscritto un accordo per la realizzazione del gasdotto che sostituirà Nord Stream 2 (e forse, anche Nord Stream 1, se verrà chiuso dalle folli manie del dittatore russo). Il progetto Soyuz-Vostok è perfetto per trasportare gas dalla penisola siberiana di Jamal (in origine era destinato al mercato europeo, mentre ora sarà portato in dote a Pechino). Siccome poi nel progetto non è coinvolto nessun soggetto esterno (una “terza parte” occidentale), la Mongolia teme a ragione di trovarsi di fronte a un contratto predatorio, con tanto di obbligo di cofinanziamento sui costi di realizzazione. È chiara l’asimmetria delle forze in campo. Ci ricordiamo, in Europa, di ciò che successe a Ucraina e Polonia ai tempi dell’Entente Cordiale tra Russia e Germania? Ci ricordiamo di ciò che oggi sta succedendo a tutti noi?

Infine, anche le sanzioni contro Mosca creano seri problemi alla Mongolia. Nella capitale dei manifestanti hanno protestato nella piazza principale di Ulan Bator, chiedendo la fine dell’invasione in Ucraina. Tuttavia, è successo qualcosa di simile a quanto avvenuto in Italia in questo stesso periodo: terrorizzati dal fatto che questa (sparuta) protesta potesse provocare il risentimento di Vladimir Putin, gli inquilini dei palazzi vicini sono scesi in piazza, invitando chi stava protestando contro la Russia a rientrare a casa.

Le sanzioni poi creano problemi anche alla Mongolia, dove l’import e il petrolio arrivano in gran parte da Mosca. Per non parlare delle nuove linee ferroviarie Mongolia-Cina, che dovrebbero incrementare del 130 per cento l’export mongolo in Cina (il 90 per cento di tutto il suo export, soprattutto carbone), cosa buona ma che porterebbe a legami fin troppo stretti tra le due nazioni. Sarebbe quindi importante che l’Occidente provasse a fornire alla Mongolia alternative commerciali e geopolitiche più concrete di quelle finora offerte.

Aggiornato il 31 agosto 2022 alle ore 10:51