Cina, occhio del ciclone delle crisi internazionali

Per la prima volta nella storia i direttori di servizi di Sicurezza come l’inglese MI5 e l’americano Fbi hanno indetto insieme una conferenza stampa, lo scorso 6 luglio. Al centro della conferenza l’allarme sulle crescenti minacce militari della Cina, che sarebbero più gravi della crisi in Ucraina su cui si concentra l’attenzione della stampa e della politica internazionali. La Cina ha lanciato la più grande sfida contro la civilizzazione e la difesa dei valori della democrazia liberale. Ken McCallum – direttore di MI5 – e il direttore generale della Fbi americana, Christopher Wray, concordano sulla necessità di contrastare – almeno geopoliticamente – la sfida del presidente cinese Xi Jinping e del nuovo Partito Comunista, sempre più lanciati sulle orme dell’imperialismo e delle dittature sovietico-putiniane. Le minacce – secondo Wray – riguardano sia l’economia sia l’integrità territoriale di nazioni come Taiwan, sull’orma di quanto fatto da Vladimir Putin in Ucraina e di quanto fece la stessa Cina comunista quando negli anni Cinquanta occupò, senza che nessuno protestasse, tutto il Tibet.

Delle nuova “Chinese way” scrive Federico Rampini in “Fermare Pechino”, il cui sottotitolo è “Capire la Cina per salvare l’Occidente” (Mondadori). Utilizzando l’analisi di Rampini sul contesto di Taiwan, scopriamo che:

– Taiwan è un’isola con la superficie poco più grande di quella di Sardegna e Corsica, con 24 milioni di abitanti. Dopo aver guidato la prima rivoluzione informatica, tra la seconda metà degli anni ’80 e gli anni ’90, quando a Taipei era concentrata la produzione di personal computer “compatibiliIbm, che costavano la metà o un terzo di un Olivetti M24, Taiwan è forse il sito informatico mondiale più importante, insieme con la Silicon Valley e la Silicon Hills di Austin, in Texas. Oggi Taiwan ospita dal 40 al 65 per cento della produzione mondiale di semiconduttori, la parte pensante di tutti i dispositivi tecnologici che sono la nostra “res cogitans atque extensa” se vogliamo rinchiudere Cartesio in un’unica stanza, riducendo a un unicum la sua definizione di soggetto-oggetto;

– grazie al suo monopolio, frutto di una capace imprenditoria non ostacolata dalla politica, Taiwan è una potenza economica con un Pil molto alto. Quando la produzione di semiconduttori a Taiwan è crollata nel 2021, complici il Covid, la siccità che ha rallentato la lavorazione del silicio, l’aumento del prezzo del trasporti via mare (programmato da Pechino, capita di pensare oggi, pensando all’aumento dei prezzi), la produzione di automobili ha dovuto rallentare in tutto il mondo;

– se gli Usa non riuscissero a bloccare l’invasione militare di Taiwan da parte cinese, Pechino diventerebbe la potenza dominante in tutta l’Asia, costringendo al riflusso la stessa India;

Xi Jinping giustifica l’invasione col fatto che Taiwan sarebbe una “provincia” cinese, ma ciò è opinabile. A Taiwan, nel 1989, la democrazia e i diritti umani si rafforzavano, mentre in Cina c’era la strage di piazza Tienanmen.

Di fronte a questa situazione, dobbiamo essere consapevoli che gli Stati Uniti da soli non riuscirebbero a intervenire in tempo per fermare l’invasione cinese di Taiwan (molto vicina alla terraferma). Scrive Rampini: “Ormai la dottrina militare prevalente al Pentagono considera (la possibilità di respingere un’invasione cinese) come un’impresa quasi disperata”. Questo perché “la Cina negli ultimi cinque anni ha varato 90 tra grandi navi e sottomarini… e costruisce 100 cacciabombardieri ogni anno”, oltre ad avere missili e armi “spaziali” in grado di colpire le basi americane in tutto il Pacifico. Quindi, la situazione è ben diversa dal 1958, quando Mao Zedong tentò di invadere Taiwan e la bombardò. Si arrivò quasi a un conflitto atomico, ma poi Taiwan riuscì a resistere con le sole armi inviate dagli americani e la crisi si risolse prima ancora dell’arrivo della Settima flotta statunitense.

Inoltre, gli Usa non hanno di che negoziare con Xi in cambio dell’abbandono di Taiwan al suo destino. Soprattutto perché Pechino ha fatto scempio delle promesse dell’autonomia di Hong Kong e quindi nessuno crede più a una Taiwan cinese ma autonoma”. Pertanto, non ci sono soluzioni né per un “appeasement” (fallì già quello sulla Cecoslovacchia consegnata ad Adolf Hitler nel 1938), né per una reazione armata (anche se sviluppi ulteriori dell’Aukus potranno cambiare lo scenario). La Cina è una nazione molto combattiva: ha invaso unilateralmente la Corea del Sud nel 1950-1953, nel 1962 ha attaccato l’India per i confini himalaiani, nel 1979 ha invaso il Vietnam (come gli Stati Uniti, ma non c’è stata né letteratura giornalistica né cinematografica a dircelo). Per non parlare delle repressioni delle rivolte autonomiste in Tibet e Xinjiang, da dove milioni di persone sono state trasferite nei campi di rieducazione e lavoro forzato (laogai).

Pechino con Taiwan avrebbe il controllo totale su tutte le rotte del sud-est asiatico, strozzando di fatto le economie di Giappone, Corea del Sud e quelle delle nuove “tigri asiatiche” come Vietnam, Malaysia e Filippine. Il che implicherebbe anche il “lavaggio del cervello” di intere popolazioni. Il modello è Hong Kong. Xi Jinping ha deciso che la repressione della rivolta e l’incarcerazione di intellettuali e politici democratici non bastava più: “Bisognava cambiare le teste dei giovani. È iniziata così la riscrittura dei programmi scolastici, con appositi manuali prodotti a Pechino” (Rampini, opera citata, pagina 80). Se a Hong Kong si vuole estirpare dalle menti l’ammirazione per i valori occidentali, aggiunge Rampini, c’è un ulteriore problema nella “soft war” con la Cina. Infatti, anche in Occidente è in atto lo stesso programma del cambiare le teste dei giovani attuato da Pechino in tutto il suo territorio.

Almeno in questo la crescente dictatorcrazia di Xi Jinping ha ragione: a Pechino l’Occidente è visto come una civiltà decrepita e destinata alla barbarie, come la decadente Roma di Edward Gibbon, lo storico che contribuì a mantenere a lungo i valori fondanti del dominio tecnico-culturale del Regno Unito e –poi –degli Stati Uniti, costruiti sulla democrazia ateniese e sulla Repubblica di Roma fino a Giulio Cesare. Ricorda Rampini che in Cina le squadre di operai, che iniziano a pulire un aereo appena atterrato, sfilano tutte perfettamente abbigliate, come soldati in una sfilata. Dopodiché, cantano un inno patriottico, prima di cominciare a lavorare come formiche. Si faceva così anche sotto il fascismo, ma per finta. Nella Germania nazista –dove sono seri e vanno dritti come treni anche nell’errore e nell’orrore – finì come finì.

“… In America è la gioventù stessa che sta normalizzando molti campus universitari”. È il nuovo pensiero unico non capitalistico ma falsamente ambientalista e progressista: “Per la sinistra radicale dei campus americani l’Occidente è una civiltà criminale che ha collezionato secoli di orrori e inflitto sofferenze al resto dell’umanità”. Simili politiche e simili idee negli anni della Guerra fredda venivano diffuse dall’Unione Sovietica. Molti gruppi “di sinistra” nati dopo il 1968 erano pagati dalle residenture sovietiche in Italia, Francia o Germania. Il movimento antinucleare determinò un blocco alla tecnologia italiana.

In America è in corso la distruzione sistematica dell’autostima nazionale”, scrive Rampini (opera citata, pagina 81). Aggiungerei che film, stampa, musica pop e trap agiscono come macchine dell’elettroshock, più che nel modo fumettistico macho e rambista, quando spingono le masse verso la distruzione di ogni valore e di ogni nuova idea. La cinematografia cinese – che non è quella hongkonghese di Jackie Chan – oggi è quella del successo mondiale di Wolf Warrior, quella dove il protagonista Leng Feng (un Rambo ex militare casualmente non osteggiato dai giovani occidentali che odiano Rambo) afferma: “Chiunque offenda la Cina, ovunque si trovi, deve essere sterminato”.

Sulle analisi contro la decadenza di Gibbon dovremmo meditare anche in Italia, dove stiamo dimenticando i fondamentali dell’educazione. Al contrario della Cina, dove i liceali arrivano a stare chiusi in scuola dalle 7,30 del mattino fino alle 22 di sera (e poi studiano anche a casa) e dove chi sbaglia paga – anche troppo – in Italia il rapporto tra azione corretta, azione sbagliata e gli effetti relativi, è malsano: se un ragazzo sbaglia una risposta o un comportamento, da noi non c’è né la punizione greco-romana, né quella cristiana o cinese, ma non c’è nemmeno il suggerimento per migliorare la risposta.

Mettiamoci in testa questo: nel processo educativo Occidentale (dei giovani come delle masse) c’è solo la domanda, la risposta non conta più niente. È per questo che troppi adulti e ragazzi crescono scervellati, mancando per giunta di educazione familiare.

(*) Federico Rampini, “Fermare Pechino. Capire la Cina per salvare l’Occidente”, Mondadori, 2022, 324 pagine, 10,99 euro

Aggiornato il 28 luglio 2022 alle ore 12:24