Tunisia: una nostalgica deriva costituzionale

Osservando gli squilibri politici che toccano la maggior parte degli Stati del pianeta, possiamo affermare che l’avere una Costituzione, oggi, può essere anche un bluff liberale. Sentiamo dire, evocare, inneggiare, che la Carta costituzionale, come la Democrazia, è una garanzia per avere diritti e un vincolo per rispettare i doveri, nel quadro di una sfuggente Libertà. Invece, così è raramente. La Costituzione, ottriata (concessa dal sovrano) o “votata”, con le sue articolazioni, veniva data o conquistata, ed era garanzia, in generale, di rappresentatività e partecipazione, sia per i sudditi che per i cittadini. Tuttavia notiamo, in questa lunga fase di agonia sociale in cui stiamo sopravvivendo, che le Costituzioni o vengono ignorate, o vengono utilizzate per permettere, contrariamente, atteggiamenti ed azioni con tendenze variamente autocratiche.

Lo si è notano chiaramente anche in Italia, dove molti principi costituzionali sono stati notoriamente schiaffeggiati dal semplice abuso dello “stato di emergenza”, palesando la fragilità e l’obsolescenza della Carta; si nota in Russia, dove la Costituzione, giustamente o meno, viene adattata al programma presidenziale putiniano, ma anche in altri Stati “occidentali” con forti tradizioni democratiche, spesso viene superata da artifizi normativi occasionali. Gli Stati africani sono un altro grande esempio di utilizzo di questo termine, “Costituzione”, usato spesso tanto per dare un “tono liberale a scelte liberticide; in questi casi, all’atto pratico, la Costituzione è solo un insieme delirante di regole funzionali all’autocrate o a colui che ambisce ad un ruolo di “presidente” a vita, usando la “sacra Carta” come alibi.

La “sentinella d’Europa”, la Tunisia, sta attraversando un complesso periodo politico, dove il presidente Kaïs Saïed sta esponendo il suo Paese a gravi rischi insistendo nel voler celebrare un referendum costituzionale, il 25 luglio, su una modifica della Costituzione, le cui variazioni non sono state oggetto di alcuna consultazione parlamentare. Il referendum, se non ci saranno ripensamenti, sarà fatto su una Costituzione completamente rivista, grondante di un presidenzialismo grottesco, da Stato neo-decolonizzato, l’esatto opposto dei principi ispiratori della rivoluzione del 2011 che aveva causato la caduta del presidente, “antidemocratico naturale”, Zine El-Abidine Ben Ali. In pratica, se il referendum avrà il favore del promotore, si vedrà un cambio di modello della gestione dello Stato, che sarà rappresentato dal metodo decisionale solitario e brutale di Saïed, e che proietterà la Tunisia in una zona di turbolenza, in una regione già indebolita dalla crisi burocratica, non sanitaria, legata al Covid e dall'impatto squilibrante della guerra in Ucraina.

Quindi, ombre minacciose si affacciano su questo Stato dove è nata la “Primavera araba” che poi si è trasformata in un “inverno arabo”. Comunque, Saïed continua, freddo, verso la sua deriva autocratica, nonostante i continui consigli alla prudenza provenienti sia dall’Africa che dall’Europa. Ricordo che Saïed fu eletto nel 2019 con il favore di un voto anti-sistema, una di qui “moti elettorali” osservabili anche nel mondo democratico, come l’Italia, e dove si fa credere al popolo di poter “contare”. Saïed da allora insiste nel voler imporre il suo percorso per costruire un nuovo edificio istituzionale, magari impastato di utopie, ma anche di alcune interessanti intenzioni. L’avvocato Saïed non è una sorpresa da questo punto di vista: ex professore di Diritto costituzionale, non ha mai nascosto la sua volontà di porre fine alla democrazia rappresentativa e al ruolo dei partiti politici che, a suo dire, sequestrano il suffragio popolare rendendolo strumento di potere per pochi, come è di prassi anche in Italia. A tal fine, ha immaginato un modello che definisce la costruzione della “democrazia dal basso”, dove lega la legittimità del potere a livello locale, svuotando l’Assemblea nazionale delle sue prerogative decisionali, sostituendola con una presidenza onnipotente che ricorda la figura del “raïs”, molto più familiare al popolo tunisino, come quella dello Zar al popolo russo.

Il percorso di Saïed è stato chiaro: il 25 luglio 2021 si attribuisce una missione con tratti profetici, assumendo pieni poteri e imponendo un regime eccezionale, favorito dal blocco delle istituzioni parlamentari conseguente alla Costituzione del 2014. La popolazione applaudì la forte azione, stufa degli eccessi di un parlamentarismo incosciente. Esattamente un anno dopo ecco la seconda fase del suo progetto. In un primo momento aveva affidato al costituzionalista Sadok Belaïd la redazione di un progetto preliminare, volutamente fatto fallire dal presidente tunisino, che aveva in testa una Carta tutta personale. Belaïd, sentendosi ingannato, denuncia in più interviste il testo “pericoloso” del presidente, certo che porterà a una deriva autoritaria e a una ricostituzione del potere dei religiosi, in quanto Saïed pare voglia assicurare alla Tunisia “l’Umma islamica”, ovvero la comunità di credenti, oltre una confusa regionalizzazione del potere, quello “dal basso”, che potrebbe sbriciolare l’unità nazionale.

In sostanza, un ritorno al raïs? L’ennesima dimostrazione del fallimento della Primavera araba e non solo. Intanto il Paese è sull’orlo del fallimento finanziario, la rabbia sociale è già palpabile. Chissà se anche i tunisini rimpiangeranno Ben Ali, come gli iracheni Saddam Hussein e i libici Muammar Gheddafi?

Aggiornato il 09 luglio 2022 alle ore 09:51