Fine dell’Occidente: il girotondo dell’Orso

L’eterno ritorno dell’Orso russo. Quello storico ancestrale, per capirci. L’animale simbolo che da prima dell’apparizione del Sapiens circumnavigava il nostro Continente dalla Siberia a Berlino, passando per la “Rus” di Kiev e per tutte le altre terre slave. E noi, ieri come oggi, malgrado la bile boriosa di Napoleone e le mascalzonate abortite delle armate di Adolf Hitler, ce lo ritroviamo lì perfettamente conservato nei secoli e nei millenni, gelosamente nutrito da Lenin e da Stalin, suoi massimi adoratori. Loro, i figli perversi della Rivoluzione d’Ottobre, che hanno fatto in suo onore sacrifici umani per decine di milioni, immolati in meno di un secolo sull’altare sacro della Grande Madre Russia. Dapprima, conoscemmo l’Orso come seconda Roma, erede del Dio e del Patriarca di Costantinopoli; poi con indosso gli stivaloni lucidi dello zar, mentre le sue armate cosacche erano colte dalla Storia a scorazzare in lungo e in largo lungo il nostro Vecchio Continente. Ritornato nelle sue foreste profonde dopo il disgelo del 1989 e il disboscamento ideologico del comunismo post 1992, eccolo riapparire ai nostri confini, cavalcato dall’Autocrate di turno, nutrito per decenni con migliaia di miliardi di euro usciti dai nostri forzieri di generosi consumatori di energia russa, proni ad accarezzare quel suo mantello così folto e rassicurante.

Nulla di strano, quindi, che oggi ci ritroviamo sotto di lui minacciati da quei suoi artigli lunghi, corazzati e affilati come non mai, mentre la sua zampa ruvida e gigantesca affonda marciando su decine di milioni di tonnellate di grano ucraino. Cosa importa se così facendo si affama l’Africa dell’oro, del petrolio e dei diamanti, pur di bagnarsi finalmente come unico padrone nelle acque del mare caldo di Azov, dopo aver versato per arrivarci un altro fiume di sangue ed edificato rovine dove prima c’era una civiltà. Lo abbiamo voluto, glielo abbiamo lasciato fare e continueremo a farlo. Perché noi siamo alla Finis Occidentis, con la divisa logora della nostra armata pezzente, fintamente schierata da quasi ottanta anni in una difesa inesistente, ipocrita e parolaia dei diritti e delle istituzioni internazionali, compresa l’inviolabilità dei confini delle Nazioni europee. Perduta ogni residua illusione di camminare sulla pelliccia dell’Orso russo, distesa lungo il pavimento del salotto buono di casa nostra, tiriamo un sospiro di sollievo perché, forse, l’ennesimo sacrificio umano dell’Ucraina servirà a placare l’Autocrate. Il Donbass è perduto, senza che sia mai stato riconquistato. Né mai più nessuno strapperà dalle mani russe le spiagge dorate della Crimea del riposo del guerriero sovietico. E qui si apre il vero, doloroso capitolo sulla pusillanimità di questo nostro Lancillotto in disarmo della Nato, incapace di difendere l’onore dell’Occidente.

Noi, in particolare, invece di discutere delle cose serie, a proposito di Russia, Ucraina, Europa, Cina e America, restiamo immersi nel mare di Disinformatia del filo-putinismo veicolato da presunti “agenti”, che compaiono per intere ore, ogni giorno, come ospiti nei talk nazionali di maggiore ascolto, sfidando il ridicolo dei loro assunti e delle personalissime contro verità. E, purtroppo, costoro vengono presi molto sul serio anche da chi, in realtà, avendo il compito di tutelare la Sicurezza nazionale, dovrebbe mettere nell’angolo i veri infiltrati, le loro reti di collegamento e i finanziamenti con i quali viene condizionata l’opinione pubblica occidentale e italiana in particolare. Ma, come accade negli impianti di smaltimento dei rifiuti e delle scorie (di sistema), anche la spazzatura mediatica diventa oggi un prezioso carburante per produrre ancora più rifiuti di giornata da rimettere in circolo, per una discussione infinita sul Nulla. Allora, per le cose davvero serie, meglio farci dare una mano dal Washington Post che, di recente, con il suo “Ucraine’s prospects dim on the battlefield” (“Le speranze ucraine svaniscono sul campo di battaglia”) racconta nei fatti perché l’Ucraina non può farcela a fermare l’Orso russo ferito e incattivito. Meglio, quindi, mettere brutalmente sul tavolo il contenuto degli appunti con cui si è preso oggettivamente nota della realtà delle forze in campo.

Primo: gli ucraini, armi o non armi fornite dall’Occidente, “non” sono in grado di mettere continuamente in campo truppe fresche e, per di più, stanno esaurendo le riserve di munizioni, il che non fa ben sperare per contenere l’avanzata russa in Donbass. Il rapporto tra le artiglierie è almeno di dieci a uno: per cento proiettili di cannone che i russi lanciano in territorio ucraino, le batterie di Kiev sono a malapena in grado di tirarne dieci in risposta e, per di più, le riserve di colpi dei vecchi arsenali sovietici si stanno rapidamente esaurendo. Il tasso stimato di combattenti ucraini che vengono uccisi o feriti è di mille al giorno, intrappolati nelle trincee e paralizzati da un diluvio incessante di fuoco che non consente di riorganizzare le truppe per un contrattacco. E contro di loro sono efficaci anche i fondi di magazzino, come i vecchi tank sovietici T-62, richiamati in servizio dall’Armata Rossa che, per mancanza di pezzi di ricambio e di componenti elettronici, è stata costretta a fermare le sue catene di montaggio di carri moderni, riuscendo in tal modo a mantenere molto alta a proprio favore la superiorità numerica di blindati da impiegare in battaglia. Facile vincere per i generali russi che, prima di avanzare di un solo metro, desertificano le aree circostanti con i bombardamenti a tappeto dell’artiglieria, senza risparmio di colpi, lanciandoli da decine di chilometri di distanza e in tutta sicurezza, senza timore di rappresaglie, costringendo gli ucraini a ritirarsi sistematicamente dalle posizioni occupate in precedenza.

La contabilità, in tal senso, è spietata. Come riferisce il Washington Post, per 50mila proiettili lanciati ogni giorno sulle posizioni dell’esercito ucraino, i soldati di Kiev riescono a malapena a rispondere con 5/6mila colpi. Per cui, tanto per capirci, la fornitura promessa dagli Stati Uniti di 200mila obici basterebbe appena per soli quattro giorni di combattimento! E tutto ciò accade malgrado l’impiego in corso sui campi di battaglia degli howitzer M777 già forniti dagli americani. Alcune unità (non più di una decina) di quelli più sofisticati, come i lanciatori multipli del tipo Himars, sono già stati instradati ma necessitano di un addestramento non inferiore a qualche settimana che graverà su truppe già stremate, impossibili da avvicendare per i necessari turni di riposo.

Ora, se si pensa che all’inizio della campagna di invasione l’esercito di Mosca aveva in dotazione più di 900 sistemi tipo Himars, si ha l’idea di quanto sia impari e anacronistica la speranza degli ucraini di riconquistare i territori in mano russa, tanto più che l’Armata Rossa ha fatto già affluire sul campo qualcosa come 50mila nuovi riservisti. Conclusione (amara): nel caso i russi dovessero sopraffare le forti linee difensive ucraine sul fiume Donetsk, allora la città che ne porta il nome sarebbe perduta, e la resistenza ucraina nel Donbass sarebbe definitivamente vinta. Tra poco, quindi, l’Occidente avrà felicemente concluso il suo patto con Faust, vendendosi l’anima in cambio dei famosi condizionatori! Però, teniamoci stretti con le unghie e con i denti Kiev e Odessa. Altrimenti…

Aggiornato il 13 giugno 2022 alle ore 16:52