L’Europa si dimostri più forte di chi la vuole debole

Il sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca è stato approvato, ma non prima di aver ceduto – per l’ennesima volta – agli indecenti ricatti del premier ungherese Viktor Orbán, che dopo averla spuntata sul petrolio – poiché l’embargo è previsto solo per il greggio trasportato via mare e non per quello che arriva attraverso gli oleodotti – ha poi subordinato il di Budapest all’esenzione dalle sanzioni del patriarca Kirill che, per la cronaca, non è semplicemente un capo religioso, ma è un uomo d’affari miliardario e uno dei principali sodali di Vladimir Putin, oltre che un pericoloso estremista, un esaltato, una specie di Al-Baghdadi in versione russa.

Anche se alla fine Orbán l’ha avuta vinta, l’Ungheria è sempre più isolata in Europa e Orbán sempre più inviso ai principali leader. Ora che persino il gruppo di Visegrád si è sciolto a causa della russofilia dell’autocrate di Budapest – che non ha mai rinnegato e, anzi, ha continuato a coltivare la collaborazione col Cremlino – il premier magiaro è, di fatto, un corpo estraneo nel contesto europeo. E non gli rimane altro da fare che ricorrere a simili mezzucci, a questo genere di ricatti, pur di ottenere un minimo di visibilità e di rilevanza. Visto che gli autocrati non capiscono linguaggio che non sia il loro, forse è il caso che l’Europa – in un sussulto di dignità e di orgoglio – si decida a usare con Orbán gli stessi metodi che lui adopera nei nostri riguardi.

Bisognerebbe ricordare che l’Ungheria rappresenta un “free rider” all’interno dell’Unione europea, vale a dire un Paese scroccone, uno che attinge a piene mani dalle casse comunitarie, che deve gran parte del suo sviluppo economico e del relativo benessere di questi ultimi anni ai soldi degli altri, ma che non è disposto a ricambiare l’aiuto, né in termini economici, né tantomeno di cooperazione politica. L’importo che Budapest versa a Bruxelles è, in media, di appena novecento milioni di euro all’anno, a fronte dei quattro miliardi e mezzo che riceve. E ci sono stati anni – come il 2017 – in cui l’importo versato è stato addirittura inferiore e quello ricevuto superiore a quello sopracitato.

Una politica europea lungimirante ed equilibrata dovrebbe tagliare i viveri all’Ungheria, con un risparmio complessivo di tre miliardi e seicento milioni di euro all’anno, che potrebbero essere impiegati per qualcosa di più utile. Oppure limitare l’accesso dell’Ungheria ai fondi europei, stabilendo un importo massimo pari alla quota versata su base annuale; o, ancora, obbligare Budapest a versare di più. Naturalmente, dopo questo ennesimo siparietto, è giusto e doveroso che l’Ungheria non veda neanche un centesimo del Recovery Plan.

Quello europeo è un meccanismo di redistribuzione automatica, per cui l’ammontare dei contributi viene stabilito, a livello generale, in base a una percentuale fissa sull’Iva accumulata su base annua da ogni Paese e a una aliquota sul reddito nazionale lordo di ogni Stato. In altri termini, ciascuno paga in base alla ricchezza prodotta. Inoltre, è vero anche che gli Stati che ricevono più fondi sono quelli caratterizzati da un minor benessere, che vengono aiutati proprio per aggiustare gli squilibri macroeconomici. Forse, è il caso di cambiare anche questo sistema in favore di uno caratterizzato da una maggior “orizzontalità”, con un contributo fisso ed eguale per tutti gli Stati membri e di un meccanismo che subordini l’erogazione di fondi e finanziamenti alla virtuosità dello Stato destinatario o richiedente in termini di conti pubblici, rispetto dei regolamenti e delle direttive europee, oltre che dello Stato di diritto e dei valori fondamentali dell’Unione.

In secondo luogo, le principali capitali europee – Roma, Parigi e Berlino in primis – sarebbero furiose con Orbán. Al punto che a Bruxelles si comincia a ventilare l’ipotesi per la quale le prossime decisioni, almeno quelle che riguardano Mosca, potrebbero essere prese a ventisei, escludendo l’Ungheria e derogando al principio di unanimità. Sarebbe un primo passo verso l’uscita dell’Ungheria dall’Europa, si dice da più parti. Se anche fosse, non ci sarebbe nulla di male. Oltre al fatto che l’Ungheria è, di fatto, già fuori dall’Europa, bisogna anche dire che un simile evento dovrebbe essere salutato più come una liberazione che come una perdita. Non possiamo permetterci di coinvolgere nelle decisioni comunitarie e di avere nelle nostre istituzioni europee un Paese che se la intende col nostro peggior nemico: quella Russia che vorrebbe sottometterci e trasformarci, uno dopo l’altro, in tante piccole Ungherie governate dai caporaletti di Vladimir Putin. Ne va della nostra sicurezza e della nostra libertà.

In ogni caso, difficilmente si verificherà una cosa simile: Budapest ha troppo da guadagnare dalla sua permanenza nell’Unione e troppo da perdere da un suo eventuale addio a Bruxelles. Proprio per questo dovremmo iniziare a valutare un giro di vite sui finanziamenti che vengono elargiti annualmente e sulla quota che l’Ungheria paga per stare dentro. In altre parole, od Orbán si decide ad abbassare la cresta e ad agire di concerto con gli altri Stati membri, oppure è giusto che venga riportato a più miti consigli con le maniere forti. Orbán difende solo l’interesse del suo Paese? Sicché, sarebbe più furbo di noi che siamo disposti a fare dei sacrifici in nome della sicurezza e della libertà del nostro Continente? Niente di tutto questo. Orbán è solo connivente con chi vorrebbe distruggerci: è l’avamposto russo in Europa. Oppure ha solo una visione angusta e limitata di quale sia l’interesse del suo Paese.

Una cosa, tuttavia, è certa: non può fare il sovranista con i soldi e con la reputazione degli altri, né può imporre la sua visione al resto degli Stati membri. Tra l’altro, Orbán è un rarissimo esemplare di “nazionalista misericordioso”, ossia di nazionalista che – a differenza dei polacchi, per esempio – si schiera dalla parte dei russi e si allea con lo sciovinismo del Cremlino, dimenticando quanto abbia sofferto il suo popolo sotto il giogo di Mosca ai tempi dell’Unione Sovietica. Orbán è un nazionalista affetto da una specie di Sindrome di Stoccolma geopolitica, che lo porta a volere come alleato e principale interlocutore il Paese che ha oppresso il suo.

In seconda battuta, non è detto che eventuali future decisioni a ventisei – come ventilato dalle altre cancellerie europee – siano il preludio all’uscita dell’Ungheria dall’Unione. Potrebbero, invece, essere il primo passo verso il superamento del principio di unanimità, verso un sistema che preveda l’adozione di decisioni a maggioranza qualificata e verso un’integrazione più piena, secondo la logica federale. I sovranisti, infatti, hanno cambiato strategia: non vogliono più portare i rispettivi Paesi fuori dalla Ue. Quello che vogliono adesso è restare dentro, ma alle loro condizioni, cioè subordinando l’applicazione delle direttive comunitarie alle leggi e agli interessi nazionali, difendendo il principio di unanimità. In questo frangente, l’Europa deve dimostrarsi più forte di chi la vorrebbe debole e inerte. Deve dimostrare che l’obiettivo è quello di un’integrazione sempre più stretta per arrivare, nel minor tempo possibile, alla creazione degli Stati Uniti d’Europa. Deve saper respingere gli attacchi dei nemici interni, di quelli che vorrebbero paralizzarne l’azione e che vorrebbero cambiare in peggio il volto dell’Europa: a cominciare da Orbán.

Aggiornato il 07 giugno 2022 alle ore 10:48