Afghanistan: la crescita dello Stato islamico del Khorasan

In più occasioni si è ribadito che il disonorevole ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan avrebbe causato effetti differiti anche di grande rilevanza. L’avvento dei Talebani al potere, intanto, ha riportato la condizione femminile, l’economia e i rapporti di cooperazione indietro di 20 anni. Inoltre, come era assolutamente previsto, la debolezza strategica del Governo dei talebani, caratterizzato maggiormente da profili da “capi villaggio”, ha reso facile la crescita dell’estremismo islamico rappresentato, in questo caso, dallo Stato islamico del Khorasan, Is-K, il ramo regionale dell’Isis. Tuttavia, ricordo che a marzo del 2021 ha avuto luogo, a Doha, la sintesi di due limitatezze diplomatiche, quella occasionale Usa, rappresentata dal segretario di Stato, Mike Pompeo e quella cronica del numero due dei Talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, trattando, tra l’altro, di come fronteggiare l’Is-K.

Questo è il gruppo islamista armato più radicale in Afghanistan. Tale organizzazione terrorista da agosto 2021 (dopo lo sgombero statunitense e corte annessa) ha incessantemente messo in atto attentati mortali, con lo scopo di destabilizzare, o meglio non far stabilizzare, il regime dell’emirato proclamato dai talebani. Solo mercoledì 25 maggio quattro attentati dinamitardi hanno fatto saltare tre minibus, che trasportavano passeggeri sciiti, a Mazar-i-Sharif, città del nord, dove almeno dieci persone sono morte e quindici sono rimaste ferite: così ha riferito Najibullah Tawana, capo del servizio sanitario di Balkh. In serata, a Kabul, la quarta esplosione ha preso di mira una moschea sciita, uccidendo alcune persone e ferendone una decina, fonte del ministero dell’Interno. Tutte azioni rivendicate dallo Stato islamico.

Alla fine di aprile, durante il mese del Ramadan, alcuni letali atti terroristici con decine di morti hanno aggravato la confusa realtà sociale e politica. Inoltre, questi attacchi hanno colpito soprattutto la minoranza sciita Hazara, considerata eretica dai gruppi sedicenti jihadisti. Anche a Kunduz, nel nord-est, almeno trentasei persone, bambini compresi, hanno perso la vita in un altro attentato contro una moschea sunnita, frequentata da Sufi. A Kabul, in più, dieci persone sono rimaste uccise il 29 aprile nell’esplosione in una moschea sunnita.

Da parte loro i talebani stanno conducendo una feroce pressione verso i membri dello Stato islamico del Khorasan, contro il quale combattono da anni. Le azioni si concentrano, in particolare, nella provincia orientale di Nangarhar, dove hanno arrestato centinaia di uomini accusati di farne parte. I Talebani da alcuni mesi affermano di aver sconfitto l’Is-K, ma dai dati che possiamo recepire il gruppo terroristico rappresenta ancora la principale minaccia alla pseudo-sicurezza dell’Afghanistan. A ogni buon conto, i talebani sanno con chi prendersela. Infatti, la causa dei successi segnati dall’Is-K viene attribuita al mancato sostegno dei loro ex protettori pakistani. Così, nel macabro scenario degli attacchi, crescono le tensioni tra Afghanistan e Pakistan. I talebani denunciano soprattutto la storica recinzione, la “linea Durand”, eredità britannica eretta dai pakistani, lunga oltre duemilacinquecento chilometri e atta a proteggere il loro confine. I talebani immaginavano che, conquistato il potere con la forza, avrebbero eliminato ogni traccia del passato, creando uno Stato che fosse totalmente diverso da quell’Afghanistan governato per vent’anni da un regime sostenuto dall’Occidente. Ma così non è stato, come anche la pacificazione delle relazioni con il vicino Pakistan si è dimostrata un fallimento. Per l’appunto, questa situazione sta contribuendo alla proliferazione del “marchio” dello Stato islamico in Asia, dove ha conquistato terreno. Così vediamo lo Stato islamico del Khorasan combattere in Afghanistan e capillarizzarsi nella regione. Tale diffusione lega, sotto una unica cupola, gli altri gruppi legati allo Stato islamico, “ideologia” che attecchisce soprattutto negli ambiti socio-politici precari.

In Africa, lo Stato islamico del Grande Sahara raccoglie sotto la bandiera nera gruppi armati radicali e anche semi anarchici, che si stanno estendendo nel Sahel – in particolare in Burkina Faso, Mali, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, Ciad, Nigeria dove l’ultimo attentato in una chiesa ha procurato oltre cinquanta morti – ma generalmente in tutta l’area sub sahariana. Azioni ordite con lo scopo di mettere in crisi le poche certezze sociali in quelle regioni dove riescono a radicalizzarsi. E spingere a una guerra civile, costringendo i musulmani a scegliere da che parte stare. Ovunque persistono conflitti – e dove lo Stato è assente o sinonimo di ingiustizia e violenza – la minaccia jihadista esiste e prolifera. Infine, in Europa, dove improvvisati terroristi islamici senza essere né addestrati né a volte indottrinati con mezzi occasionali, attaccano obiettivi poco protetti ma simbolici, senza dover rivendicare fedeltà all’Is o ai suoi momentanei referenti, ricordando il “mandato” dell’iracheno Abou Ibrahim Al-Hachimi Al-Qourachi, leader dell’Isis, ucciso a febbraio di quest’anno.

Senza dubbio la guerra in Ucraina, catalizzando gli interessi mondiali, distoglie le attenzioni sulla questione del terrorismo sedicente jihadista, che da questa situazione trae sicuramente profitto sotto molti punti di vista. Un altro “effetto non collaterale” della crisi ucraina.

Aggiornato il 06 giugno 2022 alle ore 17:15