Guerra in Ucraina: le atrocità sui civili

Nei crimini di Bucha e Kramatorsk la prima responsabilità è quella dei comandanti

Di fronte alle atrocità di Bucha e all’ennesima strage di civili alla stazione di Kramatorsk, non bisogna dimenticare che la prima diretta responsabilità è quella dei comandanti militari. Non è sufficiente ricondurre la sola responsabilità a Vladimir Putin perché, anche ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale, ai capi militari incombono precisi obblighi perché la condotta della guerra si conformi alle norme del Diritto internazionale umanitario. Soprattutto nell’esercizio del controllo sui propri subordinati e nell’adozione di ogni precauzione per evitare il coinvolgimento di vittime civili nella violenza bellica.

Dopo l’eccidio di Bucha sono seguite altre conferme di un’azione sistematica di attacchi diretti contro i civili, cui non sono stati risparmiati trattamenti disumani, oltraggi e violenze, anche in danno di anziani, donne e bambini: Borodyanka, Kyiv, Chernihiv e Sumy, sono altri nomi destinati a essere ricordati come città-martiri, in cui un occupante costretto a ritirarsi ha voluto lasciare i segni ignobili della sua rabbia, compiendo i più vili dei crimini in danno di civili inermi.

Ma il dramma della violenza bellica assolutamente ingiustificata e illegittima è destinato a non fermarsi: l’ultima notizia è quello del lancio di un missile russo Tochka che ha causato almeno 50 vittime civili nella stazione ferroviaria di Kramatorsk, nella regione del Donbass. Tutti sapevano che lì si erano ammassate le famiglie che cercavano di salire sui treni per allontanarsi dalla guerra, eppure chi ha lanciato quell’ordigno non se ne è preoccupato. Non vale nemmeno più la pena soffermarsi sull’ennesima negazione della realtà cui ci hanno abituato i proclami di chi non ha il coraggio di assumersene la responsabilità: in ogni caso le indagini indipendenti della Corte penale internazionale sapranno accertare anche da quale parte proveniva quel missile.

Su questi scenari c’è, tuttavia, un aspetto che non è stato ancora ampiamente analizzato, che invece meriterebbe maggiore attenzione anche per essere più efficacemente sottolineato a tutti i livelli: si tratta del tema della “responsabilità dei comandanti militari”. Certamente, non vanno sminuite le responsabilità del leader numero uno, e tuttavia non è sufficiente ricondurre la sola responsabilità a Vladimir Putin, perché questa va estesa sicuramente alla nomenclatura più prossima che lo continua a sostenere, ma anche alla catena di comando di tutti i responsabili militari, dallo stato maggiore ai comandanti militari fino ai livelli operativi.

Sono loro i primi diretti responsabili della condotta della guerra, e a loro incombono precise responsabilità. Nonostante siano tanti gli episodi che nella storia ci dimostrano quanto di disumano ci sia nella condotta delle guerre, c’è comunque un profilo morale che deve caratterizzare ogni “Esercito” che voglia definirsi tale per distinguersi da un’orda barbarica e da milizie mercenarie. Persino nel Codice di Hammurabi (1810-1750 avanti Cristo), il re di Babilonia aveva imposto il precetto: “Io stabilisco queste regole per evitare che il forte infierisca sul debole”. E anche nell’Arte della guerra, nel VI secolo avanti Cristo, Sun Tzu aveva sostenuto che tra i doveri di un comandante c’è quello di assicurarsi che i suoi subordinati si comportassero in modo civile durante un conflitto armato.

L’origine dei primi processi internazionali per crimini di guerra risale al 1474 quando Peter von Hagenbach fu condannato alla decapitazione da un tribunale ad hoc del Sacro Romano Impero per le atrocità commesse durante l’occupazione di Breisach dalle sue soldataglie, dato che “egli come cavaliere era ritenuto avere il dovere di prevenire”. Si è quindi arrivati al “processo Tomoyuki Yamashita”, l’ammiraglio giapponese condannato dalla Commissione militare americana di Manila (1945) per non avere esercitato il dovuto controllo sulle atrocità commesse dai suoi soldati. Eppure, già a partire dall’Ottocento ogni “comandante” che si fosse formato nelle scuole militari europee e americane ha cominciato ad avere come riferimento e guida nella condotta delle azioni di guerra il Manuale di Oxford o il Codice Lieber, ovvero i limiti postigli dal diritto internazionale umanitario sviluppatosi con le Convenzioni dell’Aja e di Ginevra. Una tradizione dei “valori militari” che purtroppo si è andata perdendo con la forte ideologizzazione e l’imbarbarimento che hanno accompagnato le atrocità della Seconda guerra mondiale, del Vietnam e delle guerre dei conflitti mediorientali, del terrorismo jihadista e dei conflitti interetnici del Continente africano.

A oggi, il percorso della definizione giuridica della “responsabilità di comando” può ricondursi essenzialmente a due importanti strumenti giuridici: il Primo protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977 e lo Statuto della Corte penale internazionale del 1998. Per l’articolo 86, paragrafo 2, del primo protocollo di Ginevra il fatto che una violazione sia stata commessa da un subordinato non esonera i suoi superiori da responsabilità “se sapevano o avevano informazioni” che stava commettendo o stava per commettere tale violazione e “non hanno adottato tutte le misure possibili in loro potere per prevenire o reprimere la violazione”. In base all’articolo 87, inoltre, le Alte Parti contraenti e le Parti in conflitto “esigeranno” che i Comandanti militari devono: conoscere e comprendere le obbligazioni che sono loro imposte dal Diritto internazionale umanitario (Diu); assicurarsi che anche i subordinati conoscano e comprendano tali obblighi; condurre le operazioni in conformità con il Diu; fare tutto ciò che è in loro potere per prevenire la commissione di violazioni del Diu da parte dei loro subordinati, e in caso di violazioni devono promuovere contro gli autori le azioni disciplinari e penali del caso.

Nel 1998 si è arrivati quindi allo Statuto della Corte penale internazionale, che ha voluto tipicizzare la nozione della responsabilità di comando secondo alcuni canoni ben precisi.  In primo luogo, all’articolo 25, Responsabilità penale individuale, si fa riferimento alla “responsabilità attiva” anche di chi “incoraggia” (oltre di chi “ordina o sollecita”) la perpetrazione di un crimine perseguibile dalla Corte. Vale anche sul punto sottolineare che l’esperienza dei primi processi della Corte ha portato a configurare altre ipotesi più ampie di imputazione di responsabilità diretta dei comandanti nei particolari istituti dell’autoria, della co-autoria e dell’autoria mediata.

Ma è l’articolo 28, Responsabilità dei capi militari e di altri superiori gerarchici, che riconduce ai comandanti anche una forma più estesa di responsabilità omissiva per il “mancato controllo”. Questa è configurabile quando il capo militare: a) “sapeva, o, date le circostanze, avrebbe dovuto sapere che le forze commettevano o stavano per commettere tali crimini”; oppure, b) “non ha preso le misure necessarie e ragionevoli in suo potere per impedire o reprimere l’esecuzione (dei crimini) o per sottoporre la questione alle autorità competenti ai fini d’inchiesta e di azioni giudiziarie”. Il paragrafo due dell’articolo 28 precisa, inoltre, che la responsabilità si configura anche nella condotta del capo militare che non sia intervenuto “essendo a conoscenza, o trascurando deliberatamente di tenere conto di informazioni che indicavano chiaramente che i subordinati commettevano o stavano per commettere tali crimini”.

C’è quanto basta per ricordare ai comandanti della Federazione Russa che la loro condotta li porterà, prima o poi, a rispondere dei crimini di guerra commessi non solo davanti alla giustizia penale internazionale ma anche di fronte alla coscienza dell’umanità.

(*) Membro dell’International Law Association

Aggiornato il 11 aprile 2022 alle ore 12:03