Fuori Orbán, dentro Zelensky

Viktor Orbán ha vinto, per la quarta volta consecutiva, le elezioni politiche in Ungheria. La coalizione formata da socialisti, liberali, verdi e nazionalisti non è riuscita a sconfiggere il premier ultra-conservatore, che rimane al potere con una solida maggioranza parlamentare. Ciò non desterebbe nemmeno tanto scalpore se, subito dopo la riconferma, lo stesso Orbán non avesse preso le distanze dai partner europei e dalla Nato nell’atteggiamento di riprovazione nei confronti della Russia e nelle manifestazioni di vicinanza e di solidarietà all’Ucraina invasa e a rischio di perdere la sua libertà. Effettivamente, Orbán ha vinto – neanche a dirlo – facendo leva sulle paure degli ungheresi, che ora non sono più tanto relative alle ondate migratorie, ma alla possibilità che l’intransigenza euro-americana nei riguardi della Russia possa portare all’allargamento del conflitto, con l’inevitabile coinvolgimento dell’Ungheria, in quanto Stato membro dell’Unione europea e della Nato. Il premier magiaro ha dichiarato di volere la pace, la distensione con la Russia – che di questi tempi si legge “sono amico di Vladimir Putin, quindi penso sia il caso di lasciargli fare quello che vuole” – di non essere disposto a inviare armi alla resistenza ucraina e a rinunciare al gas russo, giungendo persino a dire di essere disposto a pagarlo in rubli, come pretende il Cremlino. Con ciò, il Governo ungherese si conferma il più vicino a Mosca dell’area europea e del blocco occidentale.

Allo stesso tempo, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha ricevuto la visita a Kiev della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e dell’Alto Rappresentante, Josep Borrell. I due hanno potuto constatare coi loro occhi gli orrori della guerra voluta dalla Russia e le violenze commesse dalle truppe di Mosca contro i civili ucraini. È tempo di concretezza: così hanno concordato i due esponenti comunitari. Per dimostrarlo, non hanno portato al presidente di Kiev solo la loro solidarietà, ma gli hanno anche garantito che l’Unione continuerà a sostenere lo sforzo bellico ucraino con le armi e le sanzioni e gli hanno consegnato il questionario per l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea con la promessa, da parte della presidente von der Leyen, che se Bruxelles e Kiev lavoreranno assieme e coordineranno i loro sforzi, l’Ucraina potrebbe diventare membro della Ue entro poche settimane, addirittura prima dell’estate. Il presidente Zelensky ha accolto la notizia con soddisfazione e ha assicurato ai due esponenti dell’Unione che il questionario verrà consegnato entro una settimana.

Ora, i due leader – quello ungherese e quello ucraino – si erano già scontrati pochi giorni prima, quando Zelensky aveva accusato il Governo di Budapest di essere il più vicino alla Russia e di tenere nei riguardi dell’invasore dell’Ucraina una linea di sostanziale complicità; e Orbán, di rimando, aveva risposto di non essere disposto a sacrificare gli interessi ungheresi per la causa ucraina. Posizione ribadita subito dopo la sua riconferma alla guida del Paese, quando il premier magiaro ha celebrato la vittoria sostenendo che la sua vittoria fosse un messaggio che gli ungheresi avevano inviato a Bruxelles e a Kiev.

Insomma, abbiamo a che fare con due capi di Governo. Uno non vede l’ora di entrare in Europa, perché ha sotto gli occhi cosa voglia dire la non appartenenza a nessun tipo di alleanza o Comunità internazionale, che è l’unico modo di proteggere l’indipendenza nazionale; perché il suo popolo sta capendo sulla sua pelle, in maniera drammatica, che l’alternativa all’Unione europea e al blocco occidentale, per gli Stati del Vecchio Continente, è quella di diventare un satellite di Mosca, perdendo così ogni libertà. L’altro, al contrario, non vede l’ora di uscire dall’Europa, sebbene l’appartenenza all’Unione abbia avuto solo conseguenze positive per il suo Paese. Perché, diciamoci la verità, se l’Ungheria ha conosciuto un minimo di benessere economico e se Orbán ha potuto permettersi di investire sullo sviluppo e di fare riforme fiscali che hanno avvantaggiato l’impresa e attratto investimenti, è stato solo grazie ai denari di Bruxelles. Ma ora che ha ottenuto quello che voleva e che ha capito quanto sia emozionante giocare a fare l’autocrate e trasformare il suo Paese in un regime fascista, Orbán è passato dall’altra parte della barricata e ha iniziato a “flirtare” con la Russia (oltre che con la Cina).

Quello che dovrebbe fare l’Unione europea, a questo punto, è accontentare entrambe le parti. Vale a dire ammettere quanto prima l’Ucraina (e nel frattempo aiutarla con ogni mezzo a resistere all’offensiva russa) e stanziare dei generosi fondi per la ricostruzione post-bellica; subito dopo espellere l’Ungheria (almeno fino a quando gli ungheresi non raggiungeranno quella maturità necessaria per capire cosa è veramente bene per il loro Paese), pretendere la restituzione fino all’ultimo centesimo di tutti i soldi che Budapest ha ricevuto da Bruxelles in questi anni (con le buone o con le cattive) e lasciare che Orbán, il “salvatore della patria magiara”, finisca nell’orbita russa e diventi il burattino di Mosca, condividendo tale umiliante ruolo col presidente bielorusso, Aleksandr Lukachenko. D’altra parte, non possiamo correre rischi. Non possiamo permetterci di avere un amico di Putin nelle sedi europee. Non possiamo pensare di tenere “una serpe in seno”, di avere tra i piedi un vassallo di Mosca che potrebbe tradirci in ogni momento, esporre a un grosso pericolo la nostra sicurezza oppure ostacolare, per conto del suo alleato ruteno, i nostri piani di difesa e le nostre strategie rispetto alla potenziale aggressione da parte del Cremlino.

Quando il premier ungherese si accorgerà che gli autocrati al soldo di Putin non hanno alcun controllo sul proprio Paese, che sono solo gli strumenti di cui Mosca si serve per tenere in scacco altri popoli e che la loro funzione è simile a quella del cane da pastore – tenere buono il gregge (il loro popolo) per conto del padrone delle pecore (la Russia) – tornerà a Bruxelles in ginocchio, implorando quell’Europa che ha denigrato e disprezzato di riprenderlo tra le sue braccia. Sempre che Vladimir Putin non si stanchi prima di lui e non lo sostituisca con qualcuno a lui più congeniale o non lo faccia sparire come fa di solito con chi non gli va più a genio.

Aggiornato il 11 aprile 2022 alle ore 18:00