Il genocidio in Ruanda, 28 anni dopo

La Storia è fatta dalla “Memoria”, ma la Memoria è il risultato spesso di agghiaccianti avvenimenti che scandiscono il percorso di vita dell’essere umano. La Storia non è costruita sulla Pace, ma si edifica sulla Guerra e sui suoi effetti; le date, i fatti, le circostanze, segnano drammi che minano i rapporti tra gli Stati, tra i popoli e tra le etnie. I genocidi sono tra quegli avvenimenti drammatici che rendono le ferite sociali incurabili, anche perché spesso “affetti da negazionismo”; così a Kigali, la capitale del Ruanda, la Memoria è rappresentata da una fiamma del ricordo eretta nel Nyanza Genocide Memorial, in reminiscenza del genocidio iniziato ad aprile del 1994.

Esattamente ventotto anni dopo l’ultimo genocidio del XX secolo, in questi giorni si ricorda il massacro avvenuto in Ruanda tra il 6 aprile e il 4 luglio 1994. In tre terrificanti mesi di massacri furono assassinate oltre un milione e centomila persone, soprattutto dell’etnia Tutsi. Per non obliare queste ricorrenze l’opera più utile è il mantenimento della “Memoria”, lavoro sentimentalmente impegnativo che i conservatori degli archivi esercitano con emozione e dolore. L’associazione Ibuka nasce all’indomani del genocidio dei tutsi in Ruanda ed è oggi presente in molti Stati; i fondatori furono i ruandesi del Belgio che, il 16 agosto 1994, dettero vita all’associazione. Ibuka “Memoria e Giustizia”, che significa “ricordare”, non si occupa solo del Genocidio, ma anche di altri crimini commessi in Ruanda dai fautori della tesi “risolutiva” espressa dall’etnia Hutu. Ibuka ha la responsabilità di perpetuare la memoria delle vittime, perseguire e assicurare alla giustizia gli autori del genocidio e di altri crimini contro l’umanità perpetrati in Ruanda. In questi ultimi mesi l’Associazione si è impegnata a classificare, inventariare e trasferire su supporto digitale il corposo materiale presente negli archivi raccolto tra il 1995 e il 2010. Questi carteggi narrano del difficile percorso della giustizia, degli sforzi per una vacillante riconciliazione intrapresa dal Governo ruandese, raccontano degli effetti causati dal genocidio sulla popolazione, ma soprattutto della solidarietà che ha unito i sopravvissuti e che gli ha permesso di organizzarsi per sostenersi reciprocamente, ma sempre con l’incubo dei massacri ben aggrappato all’anima.

Il presidente dell’associazione Ibuka, Egide Nkuranga, ha affermato in una recente intervista a una emittente locale che i carteggi, nonostante il loro valore morale e mnemonico, erano non ben costuditi e gestiti malamente. Infatti, questi fascicoli erano ammassati disordinatamente in una delle stanze dell’Edificio del Memoriale, confusi tra alcune bare e i resti degli abbigliamenti delle vittime. Tuttavia, tale operazione di recupero è stata ed è possibile grazie al contributo tecnico e finanziario di alcune importanti associazioni, come il Memoriale della Shoah e l’Ehess, Scuola di studi avanzati in Scienze sociali di Parigi, particolarmente sensibili e coscienti della necessità che certa “conoscenza” debba essere curata e mantenuta, e anche grazie alla fondamentale opera dell’Ong britannica Aegis Trust che è impegnata a filmare le testimonianze dei sopravvissuti. Grazie a queste organizzazioni è stato possibile avviare l’operazione di archiviazione digitalizzata di tutto il materiale inerente il genocidio dei Tutsi. Lo scopo di tale intervento, oltre a quello della conservazione dei ricordi del genocidio ruandese, è di dare la possibilità a studiosi e studenti di leggere questi documenti e fare ricerca, favorendone la pubblicazione degli studi effettuati.

Quello che appare scioccante è che per la popolazione Tutsi il genocidio non si è fermato al luglio 1994, ma è continuato come una sofferenza senza tempo, nei racconti e nelle storie dei sopravvissuti, molti dei quali impegnati proprio nel mantenere la memoria e nelle azioni legali contro i loro carnefici. Eppure, ogni volta che queste testimonianze vengono riportate alla luce, gli effetti traumatici di coloro che sono legati alla storia dei Tutsi si aggravano. Shock traumatici creati dai racconti fatti nelle scuole, come dalle testimonianze nei tribunali. Il valore del contenuto di questi archivi permette di collocare i sopravvissuti come attori sociali nella storiografia generale del genocidio dei Tutsi e nella storia del Ruanda. La raccolta del materiale del dopo genocidio in possesso dell’organizzazione Ibuka andrà, quindi, a completare quella del Memorial Museum situato nel quartiere di Gisozi di Kigali, che contiene oltre 8mila fascicoli in molti dei quali viene descritta la preparazione e l’esecuzione dei massacri; sono presenti foto, testimonianze video e articoli di giornale. Oggi è particolarmente importante agire nella conservazione e nei ricordi della popolazione ruandese, soprattutto perché circa il 65 per cento della popolazione ha meno di trenta anni e quindi non ha vissuto direttamente il genocidio.

Ricordo brevemente le cause di questo eccidio che affondano le radici nella colonizzazione del Paese dell’inizio del XX secolo, dove prima la Germania e poi il Belgio iniziarono a considerare i Tutsi, etnia minoritaria, superiori agli Hutu e ai Twa. Così i Tutsi ebbero la possibilità di istruirsi e assumere quindi posizioni di responsabilità. Nel 1931, il Belgio decise di evidenziare la differenza etnica decidendo che fosse riportata nei documenti d’identità. Questa decisione escluse legalmente l’etnia Hutu e Twa da molti aspetti della vita sociale, aprendo un baratro di insofferenza e odio tra le etnie stesse. Così, dal 1959 iniziarono gli scontri tra Tutsi e Hutu. Quando nel 1962 il Ruanda ottenne l’indipendenza, gli Hutu – che erano il gruppo etnico maggioritario – conquistarono il potere. I Tutsi, fino ad allora costruiti dai colonizzatori come gruppo etnico eletto e che rappresentavano la “casta etnica” del Paese, si trovarono all’improvviso discriminati e privati di ogni diritto goduto fino a quel momento. Nel corso degli anni i rapporti interetnici si aggravarono; iniziò così un sistematico massacro dei Tutsi: molti riuscirono a espatriare ma in migliaia furono uccisi. Quindi lo scoppio della guerra civile nel 1990, che detonò il 6 aprile 1994, quando un missile – non chiaro da chi venne lanciato! – abbatté l’aereo francese che trasportava il presidente ruandese, Juvénal Habyarimana e il suo omologo burundese, Cyprien Ntaryamira. Passate alcune ore le milizie Hutu, al potere, iniziarono a trucidare chiunque fosse identificato come Tutsi, così come gli Hutu a loro vicini.

Un genocidio causato indirettamente dalle miopie colonizzatrici; ma una indubbia responsabilità viene attribuita alla Francia, rimasta cieca di fronte alla preparazione del genocidio, agli allarmi partiti da Kigali, Kampala e da Parigi, ma soprattutto ignorò la deriva genocida del regime corrotto, violento e soprattutto razzista, del presidente hutu Juvénal Habyarimana. Queste responsabilità sono state riconosciute dal presidente Emmanuel Macron esattamente un anno fa. Ma è noto che troppo spesso la causa dei disastri, che si celebrano in molti Stati, hanno radici fuori dai confini territoriali e soprattutto sono causati dalle cecità, volute o meno, della Comunità internazionale. Ma la battaglia tra la Memoria e il Negazionismo è sempre in atto, come la “questione” ucraina insegna.

Aggiornato il 12 aprile 2022 alle ore 09:52