La guerra in Ucraina ha evidentemente molte più implicazioni di quanto frettolosamente e superficialmente rappresentato sui media e nei talk-show, tutti uguali, che assillano le nostre serate televisive. Il rapporto attuale fra Usa, Unione europea e Russia, e la genesi di esso, può essere esaminato e capito anche alla luce della stretta interazione fra scienza e politica nell’Europa post-bellica. A tal fine spero che il lettore mi perdoni se riprendo qualche considerazione da me già espressa nel mio libro sulla ricerca scientifica e tecnologica promossa, finanziata e gestita dall’Unione europea (Scienza e Tecnologia. Che cosa ha fatto l’Europa?, settembre 2017). Il ruolo determinante degli Stati Uniti nella ricostruzione della ricerca scientifica nell’Europa post-bellica è ben descritto da uno dei maggiori storici della scienza contemporanei, John Krige, in un suo famoso e discusso saggio American Hegemony and the Postwar Reconstruction of Science in Europe, The Mit Press, 2006.

 Per usare le parole dello storico, “l’America, per tramite dei suoi rappresentanti, ufficiali o ufficiosi, usò il suo immenso potere dopo la Seconda guerra mondiale per perseguire non solo i suoi interessi economici e politici, ma anche quelli scientifici e tecnologici nello scenario europeo, lavorando a stretto contatto con le élites europee che condividevano gli stessi obiettivi”. La scienza era intesa come uno dei veicoli principali dei valori liberal-democratici, grazie al suo rifiuto aprioristico del principio di autorità non supportato da evidenza fattuale e alla sua esaltazione dello scetticismo organizzato e dell’approccio critico come metodo di lavoro. La scienza e gli scienziati potevano avere un ruolo fondamentale nel combattere il rischio di risorgenza dei “mali assoluti” del nazionalismo e del totalitarismo in Europa, cui dopo la guerra dovevasi aggiungere il Comunismo, che attecchiva laddove regnavano ignoranza e miseria. Incidentalmente, è singolare il fatto che argomenti non dissimili fossero usati dal fronte opposto, quello dell’Unione Sovietica, per promuovere la scienza quale fattore di base del progresso umano verso una società liberata dall’oppressione capitalistica, quindi più “giusta e democratica” e soprattutto più attenta ai bisogni dei ceti produttivi. Basti pensare come i fisici rivestissero quasi un ruolo sacrale nell’Urss, e godessero di privilegi normalmente riservati alla nomenklatura del Cremlino.

Gli Stati Uniti rivolsero i loro sforzi egemonici soprattutto verso la Ricerca Fondamentale, anche perché la Ricerca cosiddetta “applicata” evocava troppo da vicino il rischio di riarmo militare e l’acquisizione di capacità nucleari. Il rafforzamento della Ricerca fondamentale, non coperta da segreto militare, tornava anche a vantaggio dei ricercatori americani, dato comunque il grande capitale umano ed intellettuale rimasto in Europa, e poi perché veniva a compensare le restrizioni imposte nel Dopoguerra alla ricerca made in Usa, in grande parte accessibile solo ai soggetti autorizzati. Né d’altronde sussisteva il timore che una rinnovata capacità in ricerca e sviluppo dell’Europa potesse insidiare la leadership americana, stante l’enorme superiorità tecnologica, imprenditoriale e manageriale che gli Usa potevano vantare nel Primo dopoguerra. Se anche importanti scoperte scientifiche fossero state fatte in Europa Occidentale in quel periodo, l’America avrebbe saputo trarne profitto per prima. La ricostruzione della scienza di base in Europa e i suoi progressi avrebbero solo contribuito a rafforzare il primato americano.

In particolare, il carattere della policy americana si evidenziò nel supporto vigoroso dato alla costituzione del Centro europeo di ricerca nucleare (Cern) a Ginevra, quale istituto di ricerca fondamentale monotematica basato su un acceleratore di protoni e non su un reattore nucleare, come invece avrebbero voluto i francesi. La creazione di un laboratorio di fisica delle particelle elementari, di cui facesse parte anche la neocostituita Repubblica federale tedesca e la Iugoslavia, paese comunista ma non allineato, era un primo passo verso la realizzazione dell’unità europea. Di fatto il carattere di infrastruttura di ricerca monotematica del Cern e il suo rifiuto di condurre ricerca applicata in campo nucleare rivelavano la volontà americana di usare il potenziale scientifico europeo per il progresso della conoscenza cui l’America era comunque interessata, e al contempo ne evidenziava il divieto nei confronti dell’Europa di condurre ricerche che avessero potenziali applicazioni industriali e militari.

Dagli anni Cinquanta in poi la politica americana nei confronti dell’Unione Europea non ha subito sostanziali variazioni in generale. Un’identità europea si sarebbe potuta concretizzare solo attraverso la costituzione di una forza di difesa comune, che avrebbe comunque potuto agire soltanto sotto l’egida della Nato, e quindi di fatto restare una sorta di “truppa scelta coloniale”. Ad essa certamente non avrebbe aderito la Gran Bretagna, sempre fedele alla sua politica di coltivare un rapporto privilegiato con gli Usa, riservandosi però il diritto di tenere il piede anche nel ricco mercato comune europeo. Solo la Francia cercò di rompere questa sorta di vassallaggio abilmente mascherato che gli Usa stavano imponendo all’Europa, attirandosi per questo le solite accuse di sciovinismo e di ridicole e inattuali ambizioni di recupero di una grandeur ormai tramontata. Come non ricordare a questo proposito le iniziative abilmente orchestrate da movimenti eterodiretti quali Greenpeace contro i test nucleari francesi nel Pacifico e più recentemente contro i nuovi reattori Epr?

Neanche la fine dell’Urss segnò un cambiamento rilevante nella politica americana verso la Ricerca europea, se non per l’opportunità di brain drain dei migliori scienziati sovietici che si apriva in questo modo. Il fallito tentativo di “americanizzazione” della Russia e il suo ritorno su posizioni nazionali e tradizionali con la presidenza di Vladimir Putin, dettero il via al recupero dell’immenso patrimonio scientifico-tecnologico sviluppato durante l’era comunista e che rischiava di andare dissolto, all’interno però di una logica di mercato che ne può valorizzare appieno le potenzialità. Così nei settori strategici del nucleare, dell’aerospazio e degli armamenti la Russia è ritornata a essere certamente competitiva con gli Usa a livello mondiale. La fine dell’ostilità est-ovest non ha però portato la pace in Europa, soprattutto per via della convinzione americana di aver vinto la Guerra fredda e di poter estendere anche alla Russia il concetto di “sovranità limitata”, basato sulla formula seguente, secondo le parole pronunciate dal Presidente russo durante il suo ormai famoso discorso al Forum internazionale del Club Valdai nel 2014: “Più forte è la lealtà a un unico centro d’influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante”.

L’espansione accelerata ad est dell’Unione europea (Eu-28) è avvenuta dietro la forte pressione degli Usa, desiderosi di acquisire il controllo indiretto (tramite l’Ue) e diretto (tramite la Nato) di Paesi che costituivano per la loro posizione una specie di capsula di sicurezza da sistemare attorno ai confini europei della Russia. Invece il rafforzamento delle potenzialità di ricerca di Paesi che facevano già parte dell’Unione europea (Eu-15) avrebbe dovuto essere l’obbiettivo principale. La dirigenza UE si è preoccupata solo di accrescere il proprio potere di regolazione e di controllo intrusivo, senza essere capace di svolgere poi una vera azione di sviluppo di attività di ricerca originale, a parte forse la ricerca in fusione nucleare controllata culminata con il megaprogetto internazionale Iter, sulla cui riuscita però pochi sono disposti a scommettere, viste le crescenti difficoltà. I Paesi dell’Asia stanno dimostrando negli aspetti concreti dell’appropriazione e dell’utilizzazione delle nuove tecnologie una vitalità ed un dinamismo sorprendenti, che fanno da stridente contrasto all’elefantiasi inconcludente della burocrazia europea.

Oltre a Iter, in campo scientifico la collaborazione internazionale è rimasta nel settore aerospaziale (vedi stazione spaziale Iss, cogestita da Usa, Ue, Giappone, Russia e Canada), ma già dopo lo scoppio della crisi ucraina nel 2014 e l’imposizione di sanzioni alla Federazione Russa si sono avute delle conseguenze anche sulla mobilità dei ricercatori nell’uno e nell’altro senso, soggetta a forti restrizioni di natura politica oltre all’impossibilità di assegnare contratti di ricerca targati Ue a scienziati russi. Con l’invasione dell’Ucraina la situazione è certamente peggiorata, nondimeno appare davvero sconcertante l’atteggiamento tenuto proprio da enti come il Cern, che ha deciso di revocare lo stato di osservatore che deteneva la Russia in seno all’organizzazione e questo nonostante l’appello dell’Accademia delle Scienze russa che, rinnovando i suoi auspici per una pace rapida, ha chiesto alla comunità scientifica di astenersi da posizioni e azioni dettate non dall’interesse della scienza, ma dalla situazione politica e dall’emergenza contingente. Purtroppo si verifica anche nel settore della ricerca scientifica la stessa situazione che abbiamo visto nel campo dello sport e dell’arte, con le discriminazioni a danno di sportivi ed artisti russi, ma solo da parte occidentale. In sostanza, abbiamo l’invasione della politica nel campo della scienza, col risultato che la scienza diventa esattamente il contrario di quello dovrebbe essere, ossia un fattore di concordia e collaborazione fra i popoli, almeno secondo le intenzioni di alcuni padri fondatori dell’Europa, come ho scritto in apertura.

(*) Presidente Astri

Aggiornato il 18 marzo 2022 alle ore 15:45