Folli venti di guerra

Vogliamo lasciare il toto-guerra (attaccano, non attaccano) al popolo dei giornalisti, occupato ad indovinare l’epilogo reale parlando di questa possibile guerra come delle solite guerre che hanno sempre studiate sui libri di scuola. E preferiamo invece considerare un altro aspetto della questione ucraina, quello umano. Non è un aspetto che vale soltanto stavolta: sarebbe stato da sempre il più importante, ma in passato non c’erano gli strumenti di riflessione e la maturità in materia che abbiamo oggi, almeno in Europa. Se siamo infatti stati testimoni delle aggressioni belliche in paesi come l’Afghanistan, dove i diritti umani sono praticamente sconosciuti e dove il palcoscenico che avvolge le sciagurate azioni dei talebani è quello ormai ben noto di terre brulle, costruzioni scalcinate, uomini tutti coi kalashnikov in mano e rare donne in burqa, stavolta l’ambiente è simile al nostro: palazzi e grattacieli, bambini e belle ragazze per strada, Mercedes che circolano numerose.

In questo contesto, c’è una cosa che ci ha colpiti, ascoltando i commenti di questi giorni. La guerra è trattata e temuta solo per i suoi risvolti politici e specialmente economici. Si parla di gasdotti, di opportunità di danneggiare le borse, di opportunità politiche, di spartizione di territori. Nessuno, prima che accada davvero, denuncia il dramma immane di un eventuale attacco militare: la gente che muore, i feriti, i bambini, i vecchi. Dolore, ferite, sangue che inonda le strade e che non dovrebbe essere considerato con la nobiltà spacciata dalla Marsigliese (come dalla maggioranza degli Inni nazionali) verso i solchi “abbeverati” dal sangue del nemico. Una guerra sarebbe una tragedia umana e sociale inimmaginabile, non vediamo gloria nell’uccidere persone che non ci hanno fatto niente, oggi che nella costituzione inseriamo articoli che riconoscono la dignità anche ai cinghiali e fra poco alle zanzare. Uomini, donne e bambini invece si possono uccidere all’insegna del sacro gasdotto, dimenticando che il nemico oggi sei tu, domani sono io, e in questo gioco i morti potrebbero essere medici, ingegneri, scienziati e che i morti non risorgono. Se ai bambini a scuola ancora insegniamo che l’onore si basa sulla vittoria violenta su altri uomini, non ne usciremo mai. L’Inno di Mameli, che ripetiamo orgogliosi con la mano sul cuore, recita: “Chi vincer ci può? / Stringiamoci a coorte / Siam pronti alla morte … Il sangue d’Italia, / Il sangue Polacco, / Bevé, col cosacco…”. Patriottico sicuramente, ma oggi perlomeno fuorviante, nel significato.

Vorremmo chiedere a Vittorio Sgarbi, che ci ha tenuto inchiodati giorni fa con un’esemplare Lectio magistralis su Raffaello, a lui che riscuote meritatamente tanta attenzione da ogni tipo di pubblico, di dire almeno lui alla gente che il mondo di oggi ha un solo futuro, quello di sviluppare il senso sociale (conosciuto e applicato pochissimo in Italia), l’unico modo per trovare per ogni campo, quindi anche e specialmente per la guerra, la soluzione giusta.

Aggiornato il 16 febbraio 2022 alle ore 12:58