La rivoluzione ingoia i suoi figli, ma non i nipoti

Con la più grande e ultima rivoluzione popolare della seconda metà del Novecento, l’11 febbraio 1979 cadeva la dittatura monarchica in Iran. Come spesso accade nella storia, gli eventi di quella rivoluzione camminavano sui due piani paralleli e talvolta tra di loro sghembi. In un primo piano le rivendicazioni democratiche nelle strade di Teheran e di altre città, un secondo piano nei palazzi con le negoziazioni e le decisioni sulla sorte del Paese al di sopra del popolo. Dopo il massacro del venerdì nero, 8 settembre 1978, e l’uccisone di decine di manifestanti, quando gli Stati Uniti compresero che la rivolta iraniana contro la dittatura monarchica era arrivata a un punto irreversibile, pensarono che bisognasse intervenire. Smisero di sostenere il monarca e occorreva trovare qualcuno accettabile per le masse nelle strade e affidabile nei palazzi. La Persia rischiava, dopo decenni di immobilismo e di illusione di modernità imposti dai Pahlavì, di riprendere il cammino verso la democrazia, iniziato al principio del secolo!

Il quel frangente storico, in piena Guerra fredda, si poteva permettere la democratizzazione del più importante e antico Paese del Medio Oriente, che poteva anche contagiare le terre di petrolio? Bisognava provvedere. Il 77enne ayatollah Ruhollah Khomeini, alloggiato nella città santa degli sciiti in Iraq, poteva essere un buon candidato al fine di cambiare tutto per non cambiare nulla. Il personaggio ero noto per aver contestato nel 1965 lo sciah Mohammad Reza Pahlavi per aver concesso il diritto di voto alle donne. Esiliato dapprima a Bursa, in Turchia, era finito a Najaf in Iraq, dove scorreva una vita tranquilla priva di pericoli e appariva un vecchio religioso lontano dalle ambizioni politiche e mondane, mentre in Iran i combattenti contro la dittatura finivano in carcere o fucilati.

L’ambasciatore statunitense a Teheran, William Sullivan, uomo presuntuoso e senza alcuna conoscenza del Medio Oriente, dopo il venerdì nero scriveva alla Casa Bianca: “Lo sciah è senza speranza, noi qui trattiamo con gli ayatollah, fatelo anche voi!”. La confusa Amministrazione statunitense del più confuso presidente Jimmy Carter si diede da fare.

Il 6 ottobre 1978 Khomeini si trasferì a Parigi, nella cittadina di Neauphle-le-Château. I contatti con i mediatori si intensificarono e infine il 7 gennaio 1979 nella Guadalupa francese i quattro grandi paesi occidentali decisero la sorte del gendarme del Golfo persico e l’ayatollah Khomeini il primo febbraio con un volo dell’Air France mise piede sulla terra dell’Iran accolto da milioni di persone.

Il taciturno Khomeini di Najaf, il serafico ayatollah di Neauphle-le-Château, una volta a Teheran, mostrò gli artigli e la sua pietrificata visione del mondo. Il filoso francese Michel Foucault, che all’epoca scriveva da Teheran per il Corriere delle Sera, infatuato dall’Ayatollah non soltanto non se ne accorse, ma nel vecchio religioso vide l’arrivo del messia nell’antica terra di Persia. Con Foucault quasi tutta l’intellighenzia occidentale, soprattutto la sinistra in Italia e in Francia disillusa dalla sua rivoluzione mai avvenuta, prese una cotta per Khomeini. Il vecchio ayatollah intervistato sull’Air-France che lo portava a Teheran con una parola esponeva il suo programma. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva cosa sentisse mentre tornava in patria dopo lunghi anni, rispose: hichi, nulla! L’uomo che a Neauphle-le-Château prometteva acqua e luce gratuiti per tutti morì nel 1989, lasciando un Paese distrutto dopo anni del suo regime “islamico” di repressione sanguinaria, di guerra, di corruzione e d’incapacità, con milioni di persone che s’arrabattavano nella povertà più nera. Comunque, Khomeini riuscì a seminare e far germogliare l’integralismo islamico che anni dopo arrivò anche In Occidente.

Ora dopo 43 anni dalla rivoluzione, nel quarantennio più buio della storia dell’Iran, l’inflazione ufficiale galoppa oltre il 50-60 per cento e il deficit di bilancio del nuovo anno supera il 50 per cento. Lo stipendio medio è un quarto della soglia di povertà e oltre il 40 per cento della popolazione, circa 33 milioni di persone, vive al di sotto della soglia di povertà assoluta e si registrano 4 milioni e 400 mila tossicodipendenti. Secondo una recente relazione riservata a uso interno dei pasdaran, le proteste in Iran sono aumentate del 300 per cento e ciò che peggio è che sono diventate imprevedibili. Gli operai, gli insegnanti, gli impiegati, i pensionati e perfino le guardie carcerarie, ogni giorno, scendono in piazza e ogni protesta sindacale diventa politica e si chiede la fine del regime.

La teocrazia di Teheran non ha alcuna volontà né la capacità di affrontare le crisi che la investono, crisi che, sempre secondo la relazione dei pasdaran, sono sempre più acute e alcune irreversibili. La “elezione” del famigerato Ebrahim Raisi, nel giugno scorso, alla presidenza della Repubblica del regime, dovuta all’estrema debilitazione di uno Stato fallito, va percepita come strumento per affrontare la crisi, interna e internazionale. Con Raisi, Khamenei intende avere mano libera nella negoziazione ricattatoria sull’accordo nucleare, regalatogli dall’Amministrazione di Barack Obama, e sull’oppressione senza indugi della rivolta popolare che invade tutti i giorni le strade del Paese. Sfortunatamente per Khamenei il Governo di Raisi, l’uomo responsabile dell’eccidio di 30.000 prigionieri politici nel 1988, s’è rivelato come il peggiore in tutta la vita della Repubblica islamica!

Il silenzio di Michel Foucault dopo la rivoluzione sul regime islamico instaurato da Khomeini – durato fino alla morte del filosofo nel 1984 probabilmente disilluso dal suo stesso sogno – forse non ha dato il là alle cancellerie occidentali e ai “giornaloni” dei Paesi liberi e democratici che tuttora pensano sia possibile e richiedono un altro comportamento ad un regime reazionario e illiberale. I mass media di quaggiù hanno fatto sì che il mondo abbia potuto credere che in Iran non c’è alcuna alternativa al regime dei mullà. Tacciono sulla lotta di un popolo stremato dalla fame e dall’ingiustizia, tacciono sull’enorme sacrificio della Resistenza Iraniana per liberare il Paese dalle grinfie dei mullà e dei pasdaran e dal lassismo colpevole dei governanti occidentali. Tacciono sui 500 mila morti di Covid-19 in Iran che Khamenei strumentalizza per sedare la rabbia della gente in rivolta. Tacciono o meglio farneticano sulle intenzioni del regime di produrre le armi nucleari e sulla mole di incentivi offerti dai 5+1.

Alessandro Manzoni diceva che “la storia insegna che la storia non insegna nulla”. Nell’ottobre 1938 il ministro degli Esteri tedesco, Joachim von Ribbentrop, propose il rinnovamento del trattato di non aggressione in cambio della cessione della Città Libera di Danzica alla Germania e del permesso di costruire una strada extraterritoriale che collegasse la Prussia Orientale con la Germania attraverso il Corridoio polacco. La Polonia rifiutò di accettare queste richieste, quindi il patto di non aggressione fu annullato unilateralmente da Adolf Hitler. I 5+1 e chi per loro possono insistere sulla loro politica fallimentare nei confronti della dittatura teocratica di Teheran, ma gli iraniani dopo 43 anni non hanno più nulla da perdere che la loro fame e le loro catene. L’esercito della fame avanza!

Aggiornato il 11 febbraio 2022 alle ore 15:45