Afghanistan: la mannaia dei talebani sui diritti delle donne

Dal quindici agosto, data della presa del potere dei talebani, i diritti delle donne in Afghanistan hanno imboccato la strada delle tenebre. Tutte le manifestazioni che le afghane sparute e titubanti organizzano, generalmente, per le strade di Kabul, sono represse dalla violenza esercitata da gruppi di “guardiani” dotati dell’arroganza sostenuta dalla cialtronesca “sindrome da incarico”, corroborata da una faziosa visione dell’Islam. Intanto, il ministero afghano per la Promozione delle virtù e la Prevenzione del vizio ha rafforzato le “raccomandazioni” che limitano la libertà delle donne. Queste “restrizioni” toccano ormai ogni aspetto della vita delle afghane: ad esempio, i conducenti di mezzi sia pubblici che privati non possono trasportare o imbarcare donne che prevedono di spostarsi oltre i settantadue chilometri, a meno che non siano accompagnate da un parente maschio. E con l’obbligo di indossare il velo islamico alcuni controllori intendono il burka, che era obbligatorio dal 1996 al 2001, durante il loro primo periodo di “governo”. Una ulteriore raccomandazione/imposizione dei talebani è il divieto di ascoltare musica in macchina. Ma queste restrizioni non riescono a frenare il desiderio di rivendicazione dei diritti conquistati e goduti dalle donne fino a metà agosto del 2021.

A Kabul la repressione verso queste militanti è pressante; sabato 22 gennaio i talebani hanno arrestato due attiviste per i diritti delle donne note per il loro coinvolgimento nelle recenti proteste. Le due ragazze sono Tamana Zaryab Paryani e Parwana Ibrahim Khel: quest’ultima, prima dell’avvento dei talebani, era studentessa di Giornalismo e figura nota nella protesta contro i nuovi padroni del Paese. Paryani ha ripreso e diffuso sui social il video del suo arresto; nel filmato si vedono i talebani che sfondano la porta di casa, arrestando l’attivista e le sue tre sorelle. Da quel momento si sono perse le tracce di Tamana Zaryab Paryani e anche dell’altra attivista arrestata, la Ibrahim Khel. Le due ragazze sono state trattenute perché presenti, insieme a circa venti donne afghane, a una manifestazione che si è svolta il 16 gennaio a Kabul. La protesta era stata organizzata come reazione agli omicidi e alla scomparsa di numerose donne dopo la presa del potere dei talebani, oltre che contestare il programma di inserire nelle “raccomandazioni” l’obbligo del burka. La manifestazione del 16 gennaio è stata ripresa e trasmessa sui social network; nel video si nota una donna con un burka bianco macchiato di rosso, che rappresenta il simbolo delle donne assassinate dopo la caduta di Kabul. Nel filmato si vede anche una manifestante che, tolto il burka, lo getta a terra così da essere calpestato, coraggiosamente, anche dalle altre contestatrici presenti.

Ma, come era prevedibile, il video è servito ai talebani per identificare le donne presenti e strumentalizzare la manifestazione, identificandola come anti-Islam, facendo intervenire il famigerato “ministero dell’Orrore” (ministero afghano per la Promozione delle virtù e la Prevenzione del vizio). Così la stampa, assoggettata al potere, ha lanciato la falsa realtà che il video trasmesso dall’attivista Paryani era stato inventato; tale posizione è stata subito confermata dal portavoce della polizia talebana a Kabul, il generale Mobin Khan, che ha dichiarato che l’arresto è stato un “dramma inventato”. Anche il portavoce dei servizi di “intelligence” talebani, Khalid Hamraz, ha denunciato coloro che insultano i valori islamici e afghani, calunniando le forze di sicurezza, aggiungendo che dietro a queste sceneggiate c’è l’obiettivo di preparare la loro richiesta di asilo politico all’estero.

In questo contesto, ci sono molti drammi di difficile risoluzione; oltre alla tragedia della mancanza di cibo per ventitré milioni di afghani, c’è anche ciò riguarda i cittadini afghani che hanno avuto ruoli collaborativi ufficiali con gli Stati occidentali, i quali hanno gestito il Paese negli ultimi venti anni. Infatti, molti di questi ex collaboratori ormai ritengono di essere stati abbandonati, dato che molte evacuazioni e fughe sono spesso avvenute in un indistinto mix di capacità interpersonali, arbitrarietà e soprattutto fortuna. A oggi, i modi “legali” per uscire dall’Afghanistan praticamente non esistono: chi può investire ancora del denaro ricorre al rischioso mercato dei trafficanti.

Tuttavia, lunedì 24 gennaio i talebani per la prima volta dal loro ritorno al potere si sono recati ufficialmente in Europa. Le autorità talebane guidate dal ministro degli Esteri, Amir Khan Muttaqi, dopo aver risposto a un controverso invito del Paese scandinavo, hanno incontrato i rappresentanti di Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito, Germania, Francia, Norvegia e Italia. All’ordine del giorno la crisi umanitaria in atto in Afghanistan e un possibile aiuto, da parte della Comunità internazionale, solo a condizione che vengano rispettati i diritti umani (utopia).

Comunque vada un successo i “taleb” lo hanno avuto, infatti confidano che con questo precedente possano ottenere una legittimità del loro Governo, anche se a oggi nessuno Stato ha riconosciuto il regime dei fondamentalisti islamici. La Norvegia ha tenuto a sottolineare che questo incontro non costituisce nessuna legittimità o riconoscimento del Governo talebano, ma che vista la drammaticità dell’emergenza umanitaria era necessario parlare con chi, di fatto, domina il Paese. Molti membri e conoscitori della diaspora afghana hanno criticato l’invito rivolto ai talebani e diverse manifestazioni si sono svolte davanti al ministero degli Affari esteri norvegese a Oslo. Wahida Amiri, una coraggiosa attivista che a Kabul non ha mai smesso di manifestare il suo dissenso dal ritorno dei talebani, ha dichiarato all’Agence France-Presse (Afp) di essere addolorata che la Norvegia abbia organizzato questo vertice, dove al tavolo erano presenti dei terroristi con i quali si “imbastiscono” degli accordi, considerando che tra i quindici membri della delegazione, tutti maschi, giunti sabato sera a bordo di un jet noleggiato dalla Norvegia, c’è Anas Haqqani, uno dei capi della “gang” Haqqani. La sua presenza a Oslo è particolarmente criticata, in quanto responsabile di numerosi omicidi in Afghanistan.

Inoltre, gli Stati Uniti classificano la gang come un gruppo terroristico. I media norvegesi hanno comunicato che a Oslo è stata presentata una denuncia per “crimini di guerra” a carico di Anas Haqqani. L’incontro di Oslo è l’ennesima rivelazione dell’ambiguità che avvolge “l’affaire Afghanistan”.

Aggiornato il 27 gennaio 2022 alle ore 09:39