La Cina è “democratica”? Xi e il potere del comando

Chi ha reso così forte la Cina? Gli errori strategici dell’Occidente, naturalmente. La storia inizia nel 2001, con l’ingresso soft di Pechino nel World Trade Organization (Wto), fatto che ha consentito all’economia cinese di entrare nei mercati globalizzati e di moltiplicare per dieci, in soli venti anni, il suo Prodotto interno lordo (Pil), passato dai 1.339 miliardi di dollari nel 2001 a più di 15.000 nel 2021. Al prezzo, ovviamente (a nostro danno) di giocare sporco, ignorando innumerevoli volte le regole liberamente sottoscritte dalla Cina stessa. Le violazioni hanno riguardato, in particolare: il divieto di ricorrere a politiche discriminatorie per favorire la concorrenza interna; il rispetto dei brevetti e del copyright; il ricorso allo spionaggio industriale; la libera circolazione e l’insediamento nel territorio nazionale delle imprese estere, senza penalizzarle rispetto a quelle cinesi. E quante sanzioni per miliardi di dollari sono state irrogate alla Cina per le sue innumerevoli infrazioni? Dato non pervenuto. Domanda: una democrazia liberale avrebbe mai potuto comportarsi così, continuando per di più a rimanere all'interno dei maggiori organismi internazionali come membro di diritto?

L’illusione dell’Occidente (di cui ci si è amaramente pentiti!), a sostegno di questo imponente trasferimento di ricchezza, tecnologia e posti di lavoro, è stata quella di dover chiudere un occhio su questa forma molto particolare di pirateria internazionale, perché soltanto aiutando la Cina a divenire una grande economia liberale si poteva sperare in un allineamento progressivo del regime comunista ai valori delle democrazie tradizionali. Invece, nulla di tutto questo. Anzi, è accaduto esattamente il contrario, con l’insorgenza di un ipernazionalismo cinese antioccidentale. Tutto ciò, nonostante che, grazie alle delocalizzazioni, si sia avverato nel frattempo il ribaltamento di posizioni dominanti, con la perdita (a vantaggio della Cina) di alcune decine di milioni di posti di lavoro in Occidente, a causa del dislocamento massivo verso il continente asiatico delle produzioni a medio/basso valore aggiunto, con particolare riferimento all’acciaio, alle produzioni metallurgiche e al tessile. Anche se, oggi, non è già più così, essendo la Cina un’iperpotenza tecnologica appena al di sotto degli standard Usa!

Ovviamente, per il principio dei vasi comunicanti, la perdita di occupazione registrata in Occidente è stata controbilanciata dalla crescita socioeconomica del plateau della popolazione attiva cinese, favorendo il passaggio di alcune centinaia di milioni di famiglie dalla soglia di povertà a posizioni economiche decisamente migliori. Infatti, per le sole famiglie urbane (circa il 70 per cento del totale), si stima che in venti anni il loro reddito sia aumentato di almeno cinque volte. Tutto ciò è stato reso possibile da un sistema preponderante di aiuti cinesi di Stato al sistema bancario e ai settori trainanti dell’edilizia e della tecnologia, fortemente sussidiati anche normativamente. In questo caso, infatti, l’aiuto di Stato si è manifestato attraverso l’adozione di regolamenti commerciali ad hoc, per cui le imprese estere che intendano a tutt’oggi operare in Cina sono costrette a sottoscrivere contratti capestro, nei quali si fa loro obbligo di partenariato con quelle locali, previa cessione dei relativi brevetti. Un modo molto moderno per fare pirateria legalizzata, come si vede.

Anche qui: come si fa a chiamare “democrazia” la violazione sistematica e unilaterale di regole che, al contrario, tutte le altre democrazie occidentali sono tenute a rispettare, grazie al corretto funzionamento di un sistema giudiziario autonomo, interno e internazionale? E fu così che, invece di favorire l’ingresso della Cina nel club mondiale delle democrazie, abbiamo assistito al verificarsi dell’evento esattamente opposto: sono queste ultime a essere entrate in crisi, con grande gioia di Pechino che ha atteso con pazienza il passaggio del nostro cadavere lungo le Vie della Seta. In proposito, si parla sempre più spesso di un confronto impari rispetto alle democrazie illiberali o democrature, alle quali però in ogni caso non appartiene il regime cinese che, da parte sua, non perde l’occasione per rivendicare la propria superiorità rispetto al modello occidentale.

Per i nuovi mandarini di Xi Jinping, infatti, la via capital-comunista cinese è ben più performante della nostra, perché risponde alle attese del popolo e, quindi, per ciò stesso è da ritenere molto più democratica di quella americana. Ma, dialetticamente, come viene giustificata una simile e quantomeno audace asserzione? Così: “Il metro di misura di una democrazia deve essere calcolato in base alla capacità del suo Governo di andare incontro ai bisogni della gente, offrendo ai cittadini un sufficiente senso di partecipazione, soddisfazione e guadagno”.

E, finora, fanno notare i responsabili cinesi, il Pcc (Partito Comunista cinese) ha mantenuto le sue promesse di coinvolgere la base sulle decisioni politiche. In tal senso, ne è una dimostrazione pratica il consenso popolare (indiretto, si direbbe!) ricevuto a seguito dell’adozione di misure drastiche per il contenimento della pandemia e per la restrizione delle libertà di movimento, basate sull’uso indiscriminato di Big Data derivanti da potenti software di tracciamento e di riconoscimento facciale che, in Occidente, sarebbero stati ritenuti universalmente illegali e antidemocratici.

Il successo popolare delle misure anti-Covid, fanno notare i responsabili di Pechino, ha consentito alla Cina (il che è vero!) di mantenere il passo rispetto alla sua prodigiosa crescita economica pluridecennale. Sembrerebbe poco credibile, ma in realtà il sistema del partito unico e dell’uomo solo al comando ha attirato l’interesse di molti Paesi, anche occidentali, come seria alternativa al modello post 1945 a dominante statunitense. Tant’è vero che, in un suo intervento in videoconferenza con i leader africani, Xi Jinping, parlando degli aiuti cinesi per combattere la pandemia, ha citato “l’autentico multilateralismo” perseguito dalla Cina, il solo in grado di favorire libertà, giustizia e sviluppo, senza intromissioni negli affari interni degli altri Paesi, né condanne per supposte discriminazioni razziali o imposizione di sanzioni unilaterali. Chiarissimo il discorso pro domo sua. Del resto, i politologi tendono a distinguere tra la legittimazione interna (derivante dal risultato delle elezioni politiche a suffragio universale), da quella esterna, basata cioè sulle performance e sui successi del Governo in campo socio-economico e della sicurezza nazionale.

E non pochi in Occidente (con qualche ragione, come sappiamo) sono disposti a barattare una libertà di cui non sanno che farsene, in cambio di più benessere economico, dirigismo e sicurezza sociale. Beninteso, a patto di adeguarsi ai bassi livelli salariali della Cina! Ovviamente, occorre ricordare (The Economist del 4 dicembre) che il Pcc non consente che vengano indette libere elezioni, perché poi potrebbe anche perderle! E poiché i giornalisti troppo liberi e curiosi, disposti a denunciare le malefatte del regime, danneggerebbero l’immagine dell’infallibilità del Partito e del Grande Timoniere, meglio che se ne stiano in prigione senza creare problemi. Idem per i Parlamenti democratici, come quello che c'era una volta a Hong Kong (e domani toccherà al suo gemello di Taiwan) prima della loro riannessione alla Madrepatria, che debbono parlare e legiferare con una sola voce Pechino-style!

Tant’è vero che gli stessi amministratori locali dell’isola vengono richiamati per legge a dimostrare il loro senso patriottico e, per aiutarli, è previsto che qualunque forma di opposizione al governo sia perseguita penalmente! Forse, per i conservatori europei, sarà meglio, molto meglio, pensare a un vero sistema alternativo al (giallo) suprematismo ipernazionalista cinese!

 

 

 

 

Aggiornato il 17 dicembre 2021 alle ore 10:17