La guerra per l’acqua tra Egitto ed Etiopia

Il tratto etiope del Nilo Azzurro da una decina di anni è un catalizzatore delle attenzioni internazionali. La Gerd, Grand ethiopian renaissance dam, o diga del Rinascimento, è un bacino in fase di ultimazione posizionato nell’Etiopia occidentale vicino al confine con il Sudan. Con i suoi 6.450 megawatt di potenza (i reattori nucleari come quello utilizzato dalla centrale nucleare di Flamanville in Francia, hanno una potenza di 1.650 megawatt), i suoi 1.780 metri di lunghezza e 155 metri di altezza, e un invaso, al riempimento, di 74 miliardi di metri cubi d’acqua, sarà il più grande serbatoio di “oro azzurro” del Continente africano. Un investimento di 4,8 miliardi di dollari, finanziato senza aiuti esterni, e costruito dalle aziende italiane Salini-Impregilo; oggi questa opera è al centro di importanti sfide geopolitiche.

Il controllo e la gestione di questa fondamentale arteria fluviale dell’Africa orientale, ha visto dagli inizi del secolo scorso, numerosi accordi e negoziati, dove la Gran Bretagna ha avuto un ruolo determinante. Brevemente, una serie di trattati tra Egitto e Sudan ha permesso la condivisione delle risorse idriche del Nilo. L’imperatore d’Etiopia Menelik (1844-1913), nel 1902 firmò un trattato con la Gran Bretagna, che esercitava un potere tutelare su Sudan e Egitto, nell’accordo l’Etiopia si impegnava a non autorizzare la costruzione di opere che avrebbero potuto interrompere il corso del Nilo senza l’accordo di Londra e del Governo del Sudan. Nel 1929 l’Egitto, a seguito della sua indipendenza, firmò un trattato con la Gran Bretagna, ancora presente su alcuni territori a nord del Nilo, nell’asse geografico Cairo-Capo, riconoscendogli diritti naturali e storici sulle acque del fiume e ottenendo un diritto di veto sulla costruzione di opere a monte del tratto egiziano del Nilo, nonché diritto a prelevare 48 miliardi di metri cubi annui, contro i soli 4 miliardi di metri cubi del Sudan. Quando il Sudan ottenne l’indipendenza (1956), Khartoum chiese una rinegoziazione del trattato del 1929, che portò nel 1959, alla firma di un nuovo accordo che estendeva il diritto di veto sulla costruzione di opere a monte del Sudan e una nuova distribuzione delle quote di metri cubi di acqua.

Nella seconda metà del Novecento, nonostante il malcontento di molti Paesi della regione, l’Egitto è riuscito a mantenere la sua egemonia, gestendo intimidazioni e varie iniziative di cooperazione. Ma nel 2010 l’allora primo ministro etiope Meles Zenawi sancì un accordo con Kenya, Uganda, Burundi, Tanzania e Ruanda, dando pari accesso alle risorse fluviali a tutti gli stati rivieraschi del Nilo, spostando, di fatto, la geopolitica del Nilo a monte. L’accordo ovviamente non fu firmato da Egitto e Sudan e sarà descritto dal Cairo come una “pugnalata alle spalle”, accendendo la possibilità di innescare una guerra per l’acqua. Come sappiamo l’Egitto è enormemente dipendente dal fiume; il Nilo fornisce il 97 per cento del suo fabbisogno idrico e le sue sponde sono il luogo di vita del 95 per cento dei circa 100 milioni di egiziani.

La realtà è che il riempimento del Gerd avrà conseguenze certe sul flusso a valle. Infatti, il riempimento della Diga che si completerà in circa 3 o 4 anni, come programmato dall’Etiopia, potrebbe portare a una drastica riduzione della terra arabile in Egitto. L’Egitto al fine di porre dei limiti a questa dipendenza, vorrebbero che fosse elaborato un accordo che controlli l’uso della diga, ma un eventuale controllo non è accettato dall’Etiopia che lo vedrebbe come un attacco alla propria sovranità. Intanto esiste una probabile risoluzione di una contesa tra Etiopia e Sudan, circa il controllo del fertile triangolo di Al-Fashaga, occupato dall’Etiopia fino a quando non è stato recentemente riconquistato dalle forze sudanesi, evento favorito dagli scontri nel Tigray; tale congiuntura potrebbe avere un ruolo di rilassamento tra i due Stati. Se Khartoum afferma che potrebbe dissociare questa questione dai negoziati relativi alla diga, questo territorio conteso di 250 chilometri quadrati su cui sono stanziati molti agricoltori etiopi, potrebbe fungere da strumento di decompressione negoziale.

Una lettera inviata a giugno dall’ex ministro degli Esteri sudanese, Asma Mohamed Abdalla, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, riporta che Egitto, Sudan ed Etiopia erano tecnicamente molto vicini a un accordo sul 90 per cento delle questioni in discussione. Tuttavia, la retorica nazionalista schierata da questi tre Paesi nei loro scontri comunicativi si è rivelata un’arma a doppio taglio, bloccando il restante 10 per cento. La sottoscrizione di un accordo che disciplini il riempimento e il funzionamento del Gerd, richiesto da Egitto e Sudan, ma che l’Etiopia rifiuta in nome della sua sovranità, rimane il principale punto critico della “questione”.

L’Egitto è sotto pressione; una parte della stampa lo sollecita ad agire contro l’Etiopia, la società egiziana è preoccupata e oggi profondamente divisa. Inoltre, la percezione che il futuro degli egiziani possa dipendere dalla benevolenza etiope appare come un fattore di debolezza, che costringe l’orgoglioso Egitto a reagire. In parallelo l’Etiopia si trova nell’impossibilità politica di fare concessioni troppo grandi, in un momento in cui la diga è un agente catalitico di una unità nazionale barcollante. Queste due potenze regionali, agitate, in varia misura, dall’instabilità interna, restano così di fronte allo spettro di una guerra per l’acqua che risulterebbe solo perdente per tutti.

Aggiornato il 11 novembre 2021 alle ore 10:37