Cina ed Europa: un matrimonio di sconvenienza

Al di là delle annunciate ed eseguite chiusure delle miniere di carbone, nazioni manifatturiere come la Cina e la ecologica Germania non rinunceranno mai del tutto al carbone, perché il coke è utilizzato per la produzione di acciaio, la materia prima per ogni filiera industriale, per l’edilizia e le infrastrutture. Il coke serve inoltre per la produzione di ghisa, zucchero, bicarbonato, lana di roccia e le ferroleghe. Il “bla bla” su ambiente ed energia esiste per davvero.

Anche l’Italia basa le sue fortune sul settore manifatturiero

Premetto che il turismo è come il petrolio per le nazioni che vivono di rendita sui loro pozzi: distrugge le filiere produttive, rovina il territorio ed è una droga economico-culturale che addormenta popoli interi e di cui beneficiano i (pochi) proprietari di ristoranti e bar (i loro dipendenti tra non molto saranno dei laureati in Fisica teorica, che faranno carriera come aiuto bagnino o cameriere o custode di un museo). Il turismo è certo un ottimo atout da aggiungere alla produzione di merci: è plusvalore, ricchezza aggiuntiva che servirebbe a creare risparmio e investimenti (ma non è esattamente così). Purtroppo, ho visto città liguri di 20mila abitanti chiudere fabbriche che davano lavoro all’80 per cento delle famiglie (certo quelle industrie andavano ristrutturate come si fece in pianura padana), il tutto per affidare tutta la propria economia al turismo. Quella della permuta produzione-turismo, in Occidente e soprattutto in Italia, Grecia, Francia e Spagna, è stata la Grande Truffa degli anni Novanta. Una truffa che prosegue, dato che l’idiozia di massa è andata più avanti del cambiamento climatico e della capacità di fare policy efficaci. A causa di questa truffa, le produzioni sono passate in gran parte alla Cina, oltre che a nazioni dell’ex Terzo Mondo più economicamente intelligenti, come il Marocco.

Pechino diventa la fabbrica del mondo

La globalizzazione ha fatto uscire dalla povertà e dalla fame centinaia di milioni di persone. Ma questo processo positivo è stato gestito in fretta, senza outlook sugli esiti futuri. Come pescecani affamati, i Ceo dei grandi monopoli delocalizzavano a tutta forza in Cina. In Europa si è salvato solo il capitalismo diffuso e tecnologico delle Pmi padane, ma la grande produzione è andata altrove: in Cina, Marocco o Est Europa, e dall’Italia in Germania per la produzione di componenti per l’automotive bavarese, mentre la Fiat esulava prima negli Usa e poi alleandosi con i marchi francesi. Intanto negli Stati Uniti la più grande costruttrice di pianoforti del modo, la Steinway, chiudeva cedendo il passo ai pianoforti prodotti nell’Impero di Mezzo, come scriveva Erik Izraelewicz in “La sfida. Se la Cina cambia il mondo” (Lindau, 2005). Izraelewicz citava un fatto esemplare di cui ci siamo accorti anche in Italia: i più poveri avvertono profeticamente e prima dei politici i passaggi storici peggiorativi e reagiscono spesso in malo modo. Ecco perché, nel maggio 1998, in piena globalizzazione, Giacarta fu messa a ferro e fuoco da un pogrom popolare contro i commercianti cinesi. In Indonesia, nel 2005 i cinesi erano soltanto il 3 per cento della popolazione (in Malesia il 25 per cento), ma detenevano già il 60 per cento del commercio e l’80 per cento del settore bancario.

Per l’Occidente andava meglio: nelle metropoli dell’ex Celeste Impero solo 3 dollari sui 40 di un mouse Logitech andavano alla Cina negli anni della globalizzazione selvaggia. Il business sembrava migliore della scoperta del motore ad acqua. Ben presto però i rapporti economici cominciarono a cambiare e la Cina prese direttamente le redini delle sue produzioni. Cominciarono gli anni di Huawei e Xiaomi, quelli del fotovoltaico, gli anni della penetrazione cinese (iraniana e russa) in Africa, Asia ed Europa, divenute terra di conquista.

La Cina si apriva per la prima volta al mondo, grazie alla spinta “rosso-capitalistica” avviata da Deng Xiaoping, che in parte è stato un geniale download al XXI secolo del capitalismo di Stato imposto da Stalin (con buoni risultati, a giudicare dalla qualità degli armamenti sovietici nella lotta contro il nazismo e nel corso della Guerra Fredda fino agli anni ’60, quando la burocrazia bolscevica suicidò lentamente la Russia e il suo impero).

Fino agli anni Novanta Arabia e Cina erano nazioni estranee, prive persino di ogni relazione diplomatica. Poi Riyad cominciò a collaborare con Sinopec e con la russa Lukoil, cui furono affidati nuovi impianti petrolchimici. Quel flirt segò le gambe all’America clintoniana, finché gli arabi non furono soppiantati da russi e iraniani nel soddisfare la crescente fame di energia dei cinesi, i quali 15 anni fa aumentavano il loro consumo di energia del 15 per cento annuo, tanto che le fabbriche dovevano fermare la produzione ogni volta che c’era un blackout, e ce n’era in continuazione.

Cina 2021: blackout nelle fabbriche e nelle case cinesi, aumento dei costi energetici in Europa

I blackout proseguono ancora oggi. Il rimbalzo della produzione dopo la glaciazione dovuta al Covid sarebbe causa di gravi stop alla fornitura di servizi alle fabbriche e alle famiglie. The Guardian riporta quanto filtra da Cctv, la voce della “Cortina di ferro” asiatica cresciuta più del Pil negli anni del “falco” Xi Jinping: nella città di Liaoyang 23 lavoratori sono finiti in ospedale a causa del blocco della ventilazione nella loro fabbrica. I blackout potrebbero ripercuotersi sulla produzione di beni per le feste di Natale in Occidente, come telefoni e altri dispositivi informatici. Apple Cina lamenta il blocco di produzione di parti degli iPhone nella città di Kunshan, a est di Shanghai.

Uno dei motivi ufficiosi delle restrizioni ai consumi sarebbe dovuta alla necessità di ottemperare alle politiche di contenimento delle emissioni nell’atmosfera. I responsabili governativi comunque negano che in Cina ci siano problemi per la fornitura elettrica. Il caos energetico è dovuto anche alle basse performance tecnologiche delle energie alternative, ancora incapaci di concorrere con le tradizionali. L’Europa in questo campo ha avuto fortuna solo nell’area Baltica, dove si utilizza il più performante eolico, ma dove comunque si trivella petrolio nell’Artico e nell’area di mare tra Norvegia e Regno Unito. Nel Sud continentale, invece, il fotovoltaico non basta certo a sostituire il gas, e fa bene Chicco Testa a chiedere al ministro Roberto Cingolani “che cosa vuol dire speriamo che si aprano nuove pipeline per il gas ma rimaniamo sulla strada dell’uscita dal gas?”. Chicco Testa aggiunge: “E che cosa vuol dire Kerry che spinge contro i fossili, mentre Biden chiede all’Opec di aumentare la produzione di petrolio?”.

La mancanza di energia elettrica si somma col calo della produzione di semiconduttori. Vent’anni fa la Cina importava a tutta forza microprocessori dagli Stati Uniti. Adesso è un esportatore mondiale, dato che ha anche le più importanti riserve di Terre rare. Secondo Bloomberg, i tempi di attesa per auto, telefonia e altri prodotti tecnologici ad agosto 2021 sono stati di 21 settimane, il che ha causato un calo di produzione nel settore auto di -8 milioni (idem per computer, telefoni)

Il caso Aukus e le lamentazioni dell’Europa

L’Europa ha bloccato il processo di accordo sul libero scambio con l’Australia, in reazione all’affaire dei sottomarini francesi ripudiati, in favore di quelli degli storici alleati inglesi (come ho già ricordato su L’Opinione, la marina militare australiana si chiama Australian Royal Navy). Per recuperare i miliardi perduti in questi giorni, la Francia è impegnatissima a vendere armamenti al resto del mondo: ha siglato un accordo di “Mutuo soccorso” (in funzione antiturca) con la Grecia, per favorire la vendita di tre fregate ad Atene, bypassando le offerte fatte da Fincantieri e dai cantieri tedeschi e americani. Nel frattempo, Emmanuel Macron rischia di non essere più la nazione tutrice del Mali attaccato dal terrorismo islamista. La Russia ormai è sempre più attiva su quel fronte, e ha consegnato a Bamako, capitale del Mali, quattro elicotteri da combattimento Mi-171 e altri armamenti. Preoccupazione a Parigi e dibattiti sulla rete all news francese.

Mezza Europa, al seguito di politici e giornalisti illiberali di destra e sinistra, si è buttata a terra e si è strappata i capelli dalla rabbia alla notizia che Australia, Regno Unito e Stati Uniti avevano siglato il patto Aukus per contenere l’espansione geopolitica cinese. Tuttavia, l’Europa non si lamentava in questo modo, quando Cina e Russia firmavano Trattati di “collaborazione e sviluppo” a Ekaterinburg, che tra l’altro ipotizzavano di utilizzare la “bomba” finanziaria dei capitali accumulati dalla Cina per sabotare l’economia occidentale e il dollaro? Il trattato è stato rinnovato due mesi fa. Non so se Euronews ne ha trattato, non credo. E dov’era l’Europa quando Cina e Iran scambiavano amorosi sensi in nome del petrolio? Era forse ingelosita? Cosa scrivevano i giornalisti risentiti, e che mantra recitavano i mezzibusti temerari, quando la Cina partoriva la Sco (Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai), ufficialmente dedita a collegare l’economia di Pechino con le Repubbliche dell’ex Sovietistan, ma che ufficiosamente serviva a contrastare – se non a strangolare – le economie di Taiwan, Giappone, Vietnam, Filippine e Corea del Sud? Inoltre, la Via della Seta non è forse un laccio di seta al collo della stessa Unione europea? Accorgersene non sarebbe stato difficile, e comunque gli accordi siglati dai pentastellati ci hanno portato poco o niente, dal momento che restiamo sotto i livelli delle altre più grandi nazioni europee, come ricorda Federico Rampini, in un’intervista a Libero sul suo ultimo saggio “Fermare Pechino”.

Poi, quando gli Alleati anglosassoni (alla Francia manca un Charles de Gaulle, Italia non pervenuta) si sono mossi, apriti cielo! L’Europa nuota nel Mare della Tranquillità del non-allineamento mentre nel mondo tornano schieramenti e confini (purtroppo, ma sono dati di fatto). La Cina era (forse) un Gigante Buono, ma ora lo scenario è cambiato. Servono più coraggio, inventiva, capacità, per costruire un mondo migliore e privo dei rischi geopolitici che la nuova via autocratica e illiberale di Xi Jinping ha creato.

Aggiornato il 05 ottobre 2021 alle ore 09:30