Merkel di luci e di ombre: La fine di un’epoca

Dice un detto poco evangelico: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che la Merkel proponga una riforma dei Trattati europei esistenti”. Proprio l’estremizzazione del pragmatismo della cancelliera tedesca, fondato sulla filosofia del quieta non movere, o dell’imperativo di nessuna improvvisazione, ha permesso all’Europa di tenere assieme le formiche e le cicale, al prezzo di mantenere intatte le distorsioni ereditate dall’allargamento dell’Unione, che fanno della Ue un nano politico destinato a contare poco o nulla sul piano della geopolitica nell’ambito della Nuova Guerra Fredda. Pesano, in tal senso, i vincoli relativi alle decisioni all’unanimità in seno al Consiglio europeo; il rifiuto della creazione di un bilancio, di una fiscalità, di una difesa e di una politica estera comuni, per non parlare poi delle politiche comuni sull’immigrazione e l’asilo semplicemente inesistenti. In quel che segue, i riferimenti biografici e curriculari di Angela Merkel sono tratti, in buona sostanza, dall’ultimo numero di The Economist del 25 Settembre. Tra i pregi della leadership quindicennale di Angela Merkel risalta il suo polso fermo e una sorta di algido distacco nel gestire crisi epocali, come quelle dell’Euro e dell’immigrazione. La sua natura di statista-scienziato è arricchita dal dono non comune di intuire istintivamente la sostanza delle problematiche più complesse, spiegandone poi con grande chiarezza le conseguenze ai suoi cittadini: “se a fronte di questo non si fa quest’altro si va incontro a situazioni spiacevoli del tipo”. Tra i suoi difetti le viene rimproverato di esitare fin troppo nel tradurre le sue pur giuste analisi politiche in azioni e fatti concreti, a causa di un’eccessiva prudenza nell’implementare riforme di più ampio respiro.

In effetti, per quanto possa sembrare strano, nei suoi quattro governi da cancelliere, di cui ben tre di Grande Coalizione con i socialisti, non è stata approvata nessuna riforma che avesse obiettivi di medio-lungo termine. A suo carico, storicamente, le si può rimproverare di non aver mai mantenuto la promessa solenne di fare della Germania un’isola green, in base all’impegno preso nel 1997 quando la futura Kanzlerin era ministro per l’ambiente del governo di Helmuth Kohl. Eppure l’analisi a supporto dei rischi sui cambiamenti climatici che la Merkel fece all’epoca era assolutamente corretta: in mancanza di interventi incisivi sulle emissioni di CO₂, fece notare, il prezzo da pagare sarebbe stato insostenibile. Il mondo, cioè, avrebbe rischiato la carestia, l’inaridimento dei suoli e le migrazioni di massa. Eppure, da allora, le cose sono andate esattamente in senso diametralmente opposto: un quarto di secolo dopo, infatti, la Germania ha il record europeo nell’emissione di diossido di carbonio per abitante, dato che per il 44 per cento del suo fabbisogno interno di produzione di energia elettrica continua a utilizzare combustibili fossili. Un’altra promessa mancata, solennemente annunciata nel 2005 all’atto della sua presentazione come candidato cancelliere, è quella relativa alla riforma della burocrazia e alla promozione dell’innovazione tecnologica nell’ambito della pubblica amministrazione. Per di più, malgrado le sue accurate, periodiche analisi sulla sicurezza globale, condotte in seno alla Conferenza biennale di Monaco, la Merkel non ha mai annunciato in nessuna circostanza un cambio significativo di passo nella politica estera tedesca.

Durante la pandemia di Covid-19 la cancelliera, pur essendosi mostrata una presenza solida e rassicurante, ha dovuto faticare non poco a imporre la sua volontà ai riottosi governatori dei Lander. Nel complesso, la sua condotta è stata più simile a un monarca di sicuro successo che a quella di un cancelliere federale, e oggi la Merkel lascia il suo quindicennale incarico all’apice dei consensi, anche grazie alle sue rilevanti capacità di mediazione espresse nell’ambito dei tre governi di coalizione. La sua inflessibile ma tranquilla difesa dei valori liberali, mai venata da eccessi verbali, l’ha nettamente contraddistinta in positivo da altri leader populisti e nazionalisti europei e mondiali. Ora che la Merkel sta lasciando il potere, sono in molti a chiedersi se sia davvero arrivato il tempo del cambiamento per la Germania, che vada oltre il prudente conservatorismo della cancelliera uscente, facendo leva sulla spinta innovativa del Green Party che chiede di capovolgere le politiche rigoriste di bilancio, ripensando per di più a fondo la politica estera tedesca. Del resto, sondaggi recenti attestano che non meno dei due terzi degli elettori tedeschi vorrebbero significativi cambiamenti in politica e nel governo, dopo aver assistito alla gestione caotica della seconda ondata della pandemia e alle catastrofiche inondazioni del luglio scorso, che hanno sconvolto l’Ovest della Germania, anche per colpa dell’incapacità dimostrata da alcuni responsabili politici locali.

Anche la débâcle del ritiro dall’Afghanistan ha ingenerato notevole sfiducia nell’elettorato tedesco, dopo che la Germania, a partire dal 2002, aveva impiegato a rotazione ben 150mila effettivi della Bundeswehr a sostegno dell’occupazione Nato. Pochi forse sanno che, in questi ultimi quindici anni, la macchina mediatica del consenso (molto più efficiente e agguerrita della Bestia salviniana!) che la sostiene nelle discrete ma permanenti e incisive attività di opinion polling e di focus-grouping, le ha garantito di incontrare il consenso popolare nell’attuazione di epocali e non facili svolte politiche. Tra queste ultime si citano la chiusura delle centrali nucleari, il matrimonio gay, e più di recente, l’emissione di titoli del debito pubblico europeo per il finanziamento del Recovery Fund a sostegno dei Paesi dell’Ue più colpiti dalla pandemia.

La sua scommessa più rischiosa, come leader nazionale ed europeo, è stata l’apertura delle frontiere tedesche in occasione della grande crisi dell’immigrazione (a seguito della guerra civile in Siria) del 2015-16, per l’accoglienza di all’incirca un milione di richiedenti asilo, per non parlare poi dei sei miliardi di euro devoluti al dittatore Erdogan per impedire l’attraversamento della frontiera turca da parte di altri milioni di profughi. E proprio il mancato governo dell’immigrazione è stato il suo vero Tallone di Achille, favorendo la nascita tumultuosa dell’ultradestra Afd, fino allora fortemente minoritaria, che ha guadagnato molte decine di seggi sia nel Parlamento federale che in quelli dei Lander, cosa che ha impedito ogni riforma liberale sul lavoro qualificato. Ma, ora, l’Europa ha davvero un suo particolare elefante nel corridoio: l’assoluta, anche se per ora solo apparente, inadeguatezza del profilo dei candidati alla successione di Angela Merkel come cancelliera della Germania, in un periodo di difficilissima configurazione dei rapporti internazionali che si fanno sempre più tesi tra Occidente, da un lato, e Cina, Russia, Iran e Turchia, dall’altro. Draghi ci salverà, come sostituto della Merkel in Europa?

Aggiornato il 29 settembre 2021 alle ore 10:07