Afghanistan: errori strategici e fallimenti

Osservando ciò che sta accadendo in Afghanistan non si può negare che, contrariamente a ciò che viene comunicato, quello che si configura è l’ennesimo fallimento delle missioni internazionali sotto le sue varie “forme”.

L’Afghanistan, come il Sahel, mostra con modalità diverse, ma con i medesimi risultati, l’impotenza e la miopia delle strategie occidentali in aree dove la presenza dell’estremismo terroristico, vestito da jihadismo, è organico nel tessuto socio-politico.

L’Afghanistan è in una situazione estremamente delicata; mercoledì 7 luglio il ministro della Difesa, Bismillah Mohammadi, ha affermato che i talebani stanno attaccando su più fronti alcuni capoluoghi di provincia. Ha anche assicurato che “le nostre forze nazionali useranno tutto il loro potere e le loro risorse per difendere la nostra Patria e il nostro popolo”. Affermazione che non ha rassicurato nessuno.

I talebani hanno avuto una “rinascita” morale e una cresciuta aggressività bellica, quando gli Stati Uniti, lì presenti dal 2001 con continui cambi di strategia, hanno annunciato che avrebbero “sgomberato” il suolo afghano all’inizio di luglio, senza aver vinto la guerra più lunga della loro storia, lasciando i talebani in una posizione di forza. I talebani, a maggio, dopo avere occupato vaste porzioni di territorio rurale e dopo aver tentato a giugno di attaccare Kunduz, capitale dell’omonima provincia nel nord-ovest dell’Afghanistan, alla fine della settimana scorsa hanno lanciato la loro prima offensiva contro un capoluogo di provincia Qala-e Naw.

L’esercito Usa ha annunciato di aver completato oltre il 90 per cento del ritiro dall’Afghanistan. Secondo funzionari locali, i talebani sono alle porte del capoluogo di provincia di Badghis e stanno provocando il panico tra la popolazione, avendo anche liberato circa duecento detenuti, la maggior parte dei quali talebani.

La collina di Bala Hissar, che domina Kabul, è una storica fortezza del potere afghano. Le sue rovine sono una sintesi del destino di un Paese con delle peculiarità specifiche e diverso dagli altri: bramoso della sua indipendenza, ma prevalentemente “giocattolo” di potenze straniere. Nel mese di maggio, i lavori di restauro della cittadella e la missione archeologica in corso hanno portano alla luce le vestigia degli antichi invasori persiani, moghul e i più recenti britannici. Ci sono anche graffiti lasciati dai soldati sovietici tra il 1979 e il 1989 e le ferraglie arrugginite di carri armati risalenti alla guerra civile, durata dal 1992 al 1996, che vide i talebani prendere il potere a Kabul.

Al momento Hessamuddin Shams, governatore di Badghis, ha riferito che tutti i distretti sono caduti sotto l’impeto talebano. Notizia, questa, confermata all’Agence France-Presse dal capo del consiglio provinciale di Badghis, Abdul Aziz Bek, che ha aggiunto: “I servizi di sicurezza provinciali si sono arresi ai talebani presenti in città questa mattina (mercoledì 7 luglio)”. Inoltre, un membro del consiglio provinciale, Zia Gul Habibi, ha affermato che gli insorti hanno sequestrato il quartier generale della polizia e il quartier generale locale della Direzione della Sicurezza nazionale (Nds), il servizio di intelligence afghano. E ha proseguito: “Gli ufficiali della provincia si sono rifugiati in un campo militare in città dove i combattimenti continuano”.

Va detto che sulla linea di quello che definii il pericoloso “fallimento di Doha”, celebrato il 29 febbraio 2020, tra la “diplomazia” Usa, rappresentata dall’allora capo negoziatore Zalmay Khalilzad, presente anche Mike Pompeo, con l’improbabile “rappresentante politico” dei Talebani, Abdul Ghani Baradar, dopo poco più di un anno si è conclamato il modesto valore politico ed il pericoloso precedente.

Il negoziato ufficiale, celebrato dalla diplomazia statunitense come di alto valore strategico, che ha visto sullo stesso tavolo un rappresentante di Washington con un talebano, e la inquietante passiva presenza del rappresentante del Governo afghano, ha portato risultati, oltreché inutili, anche dannosi. Un incontro corroborato, come sempre, da una esagerata quantità di dollari investiti pessimamente.

Intanto un incontro c’è stato mercoledì scorso a Teheran, dove il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha detto che le delegazioni del Governo afghano e dei talebani si sono incontrate dopo il previsto “stallo del Qatar”. Zarif ha in più accolto con “giubilo” la partenza americana dal territorio afghano.

La mesta uscita delle forze Nato (missione Isaf, International security assistance force) da questa regione lascia un Afghanistan in mano talebana; le scuole femminili saranno nuovamente chiuse, molti afghani dovranno diventare nuovamente talebani, e quella sfumatura di modernità forzata diffusa in questi venti anni si dissiperà dietro l’ombra del Burka.

Vengono in mente le parole dette nel 2002 dal Mullah Omar, leader dei talebani, morto misteriosamente nel 2013, che durante una intervista rilasciata al quotidiano saudita Asharq Al-Awsat dichiarava “la battaglia era appena iniziata, la sua fiamma era stata riaccesa e brucerà la Casa Bianca riducendola in cenere”, predicendo “fuoco, inferno e totale sconfitta per gli Stati Uniti”. Ricordando che, nel frattempo, molta attrezzatura militare statunitense è già in mano talebana, e la frontiera afghana con il Tagikistan è totalmente sotto il controllo dei talebani.

Ora un altro scenario si apre a queste nazioni desolatamente uscite dall’Afghanistan, quello saheliano, dove si è celebrata la “nuova puntata” del fallimento francese; ma è noto che il mestiere della “guerra” è antropologicamente consono all’essere umano, soprattutto per quelli che praticano il terrorismo come mestiere.

Aggiornato il 13 luglio 2021 alle ore 09:24