Etiopia: disastro umanitario annunciato

L’Etiopia è uno Stato federale dell’Africa orientale di impostazione “feudale” su base etnica, infatti ognuna delle sue dieci regioni rivendica una diversa identità. Tra queste regioni il Tigray, la cui collocazione è a nord e da sempre percepito come “la culla del Paese”, è la più potente dello Stato etiope, nonostante che l’etnia tigrina rappresenti solo il 6 per cento della popolazione e il Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) è la guida politica.

Quando il capo di Stato etiope, Abiy Ahmed Alì, premio Nobel per la Pace nel 2019, conferitogli per la sua “opera di dialogo” con l’Eritrea, ha lanciato il suo intervento armato nella regione del Tigray, aveva assicurato che l’azione militare sarebbe durata poco, quasi nove mesi dopo il conflitto è ancora più che mai attivo e sta facilitando l’ennesimo disastro umanitario in un’area dove la carestia si sta diffondendo in zone sempre più ampie.

Ricordo che l’esautorazione dal potere governativo del Tplf, rappresentato da Debretsion Gebremichael, ha demolito un sistema di equilibri socio-politici ma soprattutto ha seppellito le aspirazioni di leadership politica del Tigray su tutta l’Etiopia. La storia è vecchia se ricordiamo il rapporto di forze etniche dell’Etiopia che vede l’etnia Oromo, a cui appartiene Abiy e l’etnia Amhara, maggioritarie, essere state governate per decenni dalla minoranza Tigray. La crisi sempre latente si è aggravata quando il Tigray, a settembre, ha provocato il potere centrale decidendo di organizzare le proprie elezioni, sfidando il Governo che aveva utilizzato l’alibi di una pandemia, che anche in Africa è irrilevante, per rimandarle. In questo contesto, tra crisi economica e sanitaria non da Covid, il potere centrale, brancolando nel logoramento, ha stimolato il Tplf a riprendere vigore politico. Per risposta Addis Abeba, a novembre del 2020, ha attaccando la città di Macallè, capitale della regione del Tigray.

Abiy Ahmed, già presidente dell’Organizzazione democratica del popolo oromo (Odpo), poi leader dell’Ethiopian people’s revolutionary democratic front (Eprdf), coalizione che comprende i quattro partiti di maggioranza al Governo etiope, nel 2018 assurge alla carica di primo ministro; tale incarico ha riesumato tensioni che hanno incendiato quel “fuoco etnico” che covava sotto le roventi sabbie etiopi. Proprio la nomina di Abiy a capo del Governo, lui di etnia Oromo, ha scardinato quell’equilibrio politico che aveva visto, dalla fine della Guerra di liberazione nel 1991, l’etnia Tigray – raccolta nel Fronte popolare di liberazione – tenere il potere per quasi tre decenni. Così oggi questa spirale di violenza innescata nel novembre 2020 dall’esercito governativo contro il Tigray ha messo le forze del Tplf contro il potere centrale. Questo tracciato è segnato dal sangue e dalla sofferenza in una regione dove i signori della guerra pesano nella politica come i Boiari per gli Zar. In questi ultimi giorni si sta riscontrando una recrudescenza delle tensioni: infatti la settimana scorsa l’aviazione militare ha sferrato un attacco uccidendo, nel mercato di Togoga, un villaggio a circa 20 chilometri a ovest di Mekele (Macallè), 64 persone e tre dipendenti di Medici senza frontiere (Msf), uno spagnolo e due etiopi, come comunicato dalla agenzia spagnola di Msf.

Tuttavia, sarebbe limitativo circoscrivere questa crisi tra gli Oromo e i Tigrini, infatti ci sono anche altri attori che operano su questo tragico scenario. L’esercito federale ha ricevuto il sostegno delle forze militari dell’Eritrea, confinante con il Tigray a nord e dei militari della regione etiope di Amhara, che confina con il Tigray a sud.

Ad oggi il quadro generale vede decine di migliaia di persone che da mesi si stanno rifugiando nel vicino Sudan, dove è in corso una crisi umanitaria su vasta scala, mentre le varie ong richiamano l’attenzione e l’Onu chiede un’inchiesta su possibili “crimini di guerra”. Le forze governative hanno occupato il capoluogo regionale Mekele, roccaforte del Tplf. Già dalla fine di febbraio Amnesty International ha accusato i soldati eritrei di aver ucciso, nel novembre 2020, centinaia di civili nella città santa di Aksum, nel nord del Tigray. I primi di marzo il capo della diplomazia americana Antony Blinken ha denunciato “atti di pulizia etnica”.

Alla fine di aprile, il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è detto “profondamente preoccupato” per gli abusi perpetrati sulla popolazione tigrina, chiedendo “un libero accesso umanitario”. A fine maggio, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha condannato le violazioni “inaccettabili” dei diritti umani nel Tigray e ha chiesto un cessate il fuoco immediato. L’Unione Africana (Ua) e l’Onu implorano la fine del conflitto. Ma non sembra al momento che ci possa essere una soluzione in tempi brevi: troppi gli interessi anche internazionali e troppa la discriminazione interetnica favorita dalla politica. Intanto migliaia di sfollati stanno precipitando verso un tragico destino.

Aggiornato il 08 luglio 2021 alle ore 11:22