Pechino nella trappola afghana? Le sirene di Kabul

C’è ancora posto nel Cimitero degli Imperi afghano? Non è del tutto da escludere che a morire per Kabul potrebbero essere prossimamente proprio i diretti discendenti di Mao. Lo sospetta fortemente il Financial Times nella sua accurata analisi dal titolo: “The graveyard of empires calls to China” (Il cimitero degli imperi chiama a sé la Cina).

Alcune premesse si rendono tuttavia indispensabili, alla soglia del centenario della fondazione del Partito Comunista cinese, la cui data di nascita nei documenti ufficiali è stata fissata al 23 luglio 1921 (a soli sei mesi di distanza, quindi, dalla scissione di Livorno da cui nacque il Partito Comunista italiano). Da allora moltissime cose sono cambiate all’interno del mondo comunista cinese. Anzitutto, la composizione delle classi sociali degli iscritti al Partito (pari attualmente a 92 milioni), per cui operai e contadini rappresentano oggi soltanto il 35 per cento del totale, in proporzione a burocrati, manager e professioni liberali. Da quell’estate del 1921 la Cina ha assistito a ben quattro grandi rivoluzioni interne: il periodo rivoluzionario, che va dagli anni 20 agli anni Quaranta; l’era maoista della Repubblica popolare che va dal 1949 al 1976; la rivoluzione politico-economica di Deng Xiaoping delle quattro modernizzazioni e della teorizzazione di una economia socialista di mercato.

Infine, la quarta attuale, con la restaurazione imperiale di Xi Jinping (unico leader del Pcc che non sia stato scelto all’epoca da Deng), che ha visto un massivo riarmo della Cina, nonché la totale soppressione del dissenso interno e l’affermarsi di un capitalismo di Stato aggressivo e auto-assertivo, che vuole fare della Cina la prima potenza politico-economica nel mondo, ponendosi come valida alternativa autoritaria alle democrazie rappresentative occidentali.

Volendo fare un paragone storico, la Pechino di oggi presenta moltissime analogie e somiglianze con la Mosca degli Zar Nicola I e Alessandro III, come suggerisce il Financial Times (“How Xi’s China came to resemble Tsarist Russia”). L’era di Xi, infatti, si potrebbe caratterizzare con i tre imperativi di “ortodossia, autocrazia e nazionalismo”, in sostituzione di quelli zaristi di “Fede, Zar e Patria”. Ed è con questa quarta rivoluzione che si liquidano i valori affermati con la svolta voluta da Deng che, allora, bandì il culto della personalità introducendo sia la forma collegiale di comando (sorta di meccanismo di democrazia interpartitica, un po’ come le correnti della vecchia Democrazia Cristiana), sia limiti temporali per gli incarichi di vertice nel Partito e un chiaro, pacifico processo del passaggio dei poteri tra le varie generazioni di quadri comunisti. Xi Jinping ha fatto tabula rasa di queste preziose innovazioni “ma non è detto che lo strapotere di uno solo allunghi in definitiva la vita del Pcc”.

Tant’è vero che il Leader maximo cinese potrebbe fare in Afghanistan la stessa fine di Alessandro il Grande, dell’Impero britannico e di quello sovietico, per finire alla mala parata dello Zio Sam, deciso a ritirare definitivamente le sue truppe d’occupazione entro la data fatica dell’11 settembre 2021. Malgrado che la Cina abbia confini geografici molto ristretti con l’Afghanistan, nondimeno potrebbe lasciarci le penne entrando nel Grande Gioco di Kabul. Questo perché qualcuno dovrà pur colmare nel medio termine il vuoto di potere lasciato oggi dagli americani, fatto quest’ultimo che potrebbe avere effetti destabilizzanti sull’intera regione una volta ripristinato il regime dei Talebani, al termine di quella che si prevede come una nuova guerra civile tra fondamentalisti e laici.

In questo senso, infatti, l’Afghanistan potrebbe fare da… hub (come avvenne per il Califfato dell’Isis in Iraq e Siria) per i jihadisti di mezzo mondo, mettendo nel mirino la politica (considerata genocidaria) della Cina nei confronti della minoranza musulmana dello Xinjiang, soprattutto a causa del ritorno dalla Siria dei combattenti di etnia uigura. In previsione, Pechino ha lanciato una offensiva di charme a beneficio dei dirigenti talebani, offrendo progetti infrastrutturali e di ricostruzione del Paese da inserire nella pianificazione globale e nei finanziamenti garantiti dalle banche di stato cinesi della Road and Belt Initiative (“R & Bi”), estendendola a Pakistan e Afghanistan (i così detti regni Pashtun) in modo da creare stabilità nella regione.

Questa strategia planetaria di Xi Jinping la si potrebbe definire come “geopolitica dei fatti concreti”, o dei “(concrete) projects on the ground”, anziché dei “boots on the ground” di statunitense (e hitleriana) memoria! Tra l’altro, queste opere monumentali seguono lo stesso identico principio che portò alla realizzazione imperiale della Grande Muraglia cinese e delle grandi opere pubbliche dell’Impero romano come vie consolari, terme e acquedotti. Opere, cioè, utili a ricordare nel corso dei secoli l’impronta della civiltà (imperiale!) che le ha create. E questo si renderà possibile proprio grazie alla distrazione della superpotenza americana, che ha bruciato parecchi trilioni di dollari e decine di migliaia di sodati in un’avventura militare che non avrebbe mai dovuto iniziare, al di là del blitz per eliminare i mandanti e distruggere le roccaforti di Al-Qaeda in Afghanistan.

La Cina ha approfittato degli ultimi vent’anni per sviluppare la sua potenza economica, assistendo da lontano a questa sorta di auto-castrazione di Washington a seguito delle sue “guerre che non finiscono mai!” (come lo sono state, nell’ordine, Corea, Vietnam, Afghanistan, Iraq). Ma da qui in poi si balla, anche per Pechino, che potrebbe finire nelle sabbie mobili afghane, trascinata dalle attività terroristiche ai suoi confini dei jihadisti di ritorno, con grande sollievo, stavolta, di Joe Biden che vedrebbe così il suo avversario planetario per la prima volta in grande difficoltà.

Anche perché, volendo realizzare i progetti della R & Bi a favore dello sviluppo di Pakistan e Afghanistan, Pechino deve mettere in sicurezza decine di migliaia di suoi lavoratori, che verranno presumibilmente impiegati nella realizzazione delle infrastrutture previste dalla Via della Seta. Forse, è per questo che Xi Jinping pensa a un contingente di pacificazione Onu a guida cinese, in modo da garantire legittimamente una sua robusta presenza militare nella regione, grazie all’avallo internazionale. Ma chi può dire se la spirale di violenza che ha già travolto gli imperi sovietico e americano potrà, in futuro, risparmiare quello capital-comunista cinese?

Aggiornato il 24 giugno 2021 alle ore 10:05