Elezioni presidenziali in Iran: one man show

Venerdì prossimo il regime iraniano terrà una “elezione” per determinare il suo prossimo presidente. All’inizio di questo mese, il presidente della Commissione per gli Affari esteri del Cnri (Consiglio nazionale della resistenza iraniana), Mohammad Mohaddessin, ha tenuto una conferenza stampa in cui ha delineato cosa aspettarsi dall’elezione del 18 giugno.

Le elezioni iraniane in generale – ha detto – sono “una farsa” e “un processo di selezione da parte di un leader supremo che è egli stesso non eletto”. Ma ha anche affermato che la tornata elettorale di quest’anno sarà significativamente diversa dalle altre perché si svolgerà in un momento di straordinaria vulnerabilità per la dittatura teocratica. Tale vulnerabilità deriva in gran parte dagli effetti persistenti di tre rivolte antigovernative a livello nazionale: quelle del gennaio 2018, del novembre 2019 e del gennaio 2020. Come parte del suo sforzo per compensare questi effetti, il regime si è evidentemente appoggiato alla propria natura repressiva, con il leader supremo Ali Khamenei che ha designato uno dei più famigerati violatori dei diritti umani del Paese come il favorito per assumere la presidenza dopo il cosiddetto moderato Hassan Rouhani.

Il sostegno di Khamenei rende la vittoria di Ebrahim Raisi una conclusione più o meno scontata. Ha spinto il Consiglio dei Guardiani a esercitare il suo potere di controllo preventivo ancora più pesantemente rispetto alle precedenti elezioni, eliminando tutti tranne sette dei quasi 600 candidati che si erano inizialmente registrati, compresi importanti esponenti della linea dura e persone la cui lealtà al leader supremo è indiscussa all’incirca quanto quella di Raisi.

Come ha spiegato Mohaddessin il 26 maggio, questa corsa praticamente incontrastata è una fonte di pericolo per il regime. Sebbene il Consiglio dei Guardiani abbia sempre escluso i veri riformisti e le persone ritenute non sufficientemente devote al leader supremo, dirigenti di spicco hanno sempre fatto affidamento sull’illusione di libere elezioni per rivendicare qualche parvenza di legittimità per il loro potere. Ciò a sua volta ha alimentato la propaganda che ha tenuto a bada le politiche occidentali assertive, suggerendo che la pazienza e l’impegno diplomatico avrebbero potuto un giorno portare alla riforma interna del regime esistente.

Questa narrativa è stata respinta da gran parte della popolazione iraniana soprattutto durante le tre recenti rivolte, ognuna delle quali presentava slogan che condannavano entrambe le fazioni della politica iraniana ufficiale ed evocavano un’istanza popolare di cambio di regime. La preferenza del popolo per un’alternativa veramente democratica è stata ribadita durante le elezioni parlamentari del febbraio 2020, quando la stragrande maggioranza degli iraniani ha evitato le urne, determinando la più bassa affluenza al voto registrata nei 40 anni di storia del regime iraniano.

La prossima elezione, con la totale mancanza di valide alternative a Raisi, è destinata a battere il record dello scorso anno. Innumerevoli gruppi di attività e manifestazioni pubbliche hanno espresso sostegno a un boicottaggio elettorale con slogan come “non abbiamo visto giustizia; non voteremo più”. La diffusione di quel messaggio riflette senza dubbio gli sforzi dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (Ompi/Mek) – lo stesso gruppo che è stato accreditato come forza trainante delle rivolte – per inquadrare la non-partecipazione alle elezioni farsa come un modo di “votare per il cambio di regime”.

Khamenei e altri dirigenti di spicco sono sicuramente consapevoli del fatto che un’elezione non contestata non farà altro che incentivare ulteriormente la popolazione ad abbracciare questo sentimento. Ma quegli stessi dirigenti sono anche consapevoli del fatto che il diffuso rifiuto del regime e del suo processo politico si è già radicato in seguito alle rivolte e al precedente boicottaggio. Come è tipico del processo decisionale del regime di fronte alle crisi politiche, la sua risposta a questa situazione si è concentrata sulla soppressione del dissenso attraverso una combinazione di propaganda e repressione violenta.

Raisi è l’agente ideale di tale repressione, cosa che ha confermato durante i suoi oltre due anni come capo della magistratura. Decine di iraniani furono uccisi durante la rivolta del gennaio 2018, più di un anno prima che Raisi fosse nominato capo della magistratura del regime, ma la risposta alla rivolta del novembre 2019 è stata di molti ordini di grandezza più brutale. Le forze di sicurezza e il Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica hanno aperto il fuoco su folle di manifestanti in tutto il Paese, uccidendo 1.500 persone, la magistratura ne ha arrestate oltre 12.000 e ha svolto interrogatori con torture e attuato punizioni extragiudiziali per mesi.

Per Khamenei il contributo di Raisi alla repressione ha presumibilmente consolidato il sostegno alla sua carriera che risale a una precedente fase del regime iraniano. Fino ad oggi, la principale fonte dell’infamia di Raisi è il ruolo di primo piano che svolse nel massacro di 30.000 prigionieri politici durante l’estate del 1988. Come viceprocuratore di Teheran a quel tempo, Raisi fu in grado di diventare uno dei quattro membri della “Commissione della morte” che sovrintese a quella strage nella Capitale. Organismi simili furono istituiti quell’anno nelle carceri di tutto il Paese, ma gran parte del bilancio delle vittime venne da Teheran, ed è difficile sopravvalutare la quantità di sangue che Raisi aveva sulle mani anche prima che continuasse la sua carriera giudiziaria e si affermasse come uno dei più entusiasti sostenitori in Iran delle pene corporali e delle esecuzioni capitali.

I governi occidentali devono comprendere il tipo di persona con cui probabilmente avranno a che fare dopo la transizione presidenziale dell’Iran, e dovrebbero fare piani proprio in questo momento per intervenire a favore del popolo iraniano quando le violazioni dei diritti umani inevitabilmente dilagheranno sotto Raisi. Allo stesso tempo, la comunità internazionale dovrebbe prestare molta attenzione al rifiuto schiacciante del popolo iraniano della “elezione” che porta Raisi al potere, qualcosa che Mohaddessin ha predetto sarà un precursore di rivolte “molto più intense e diffuse che negli anni precedenti”.

Aggiornato il 15 giugno 2021 alle ore 10:46